Calcutta live a Napoli: ci fa o ci è?

Questo è uno di quei report da scrivere rigorosamente a caldo, senza pensarci troppo, esattamente come va ascoltata la musica dell’artista oggetto del report: perché se ci si mette ad analizzare i testi, a leggerli con calma, allora c’è qualcosa che sfugge.
Che stride.
Che ci lascia straniti, come un grande punto interrogativo.

Il 19 febbraio Calcutta si è esibito per la prima volta a Napoli con il suo “Mainstream – Tour”, ed ha aggiunto alla sua collezione di sold out una nuova spunta.
La data, organizzata da Ufficio K e Controcanti, si è consumata al Lanificio 25.
Appena arrivati ci siamo subito resi conto che non sarebbe stata una serata come tutte le altre: una fila lunghissima di persone al botteghino aspettava di entrare e solo dopo un po’ di attesa noi siamo riusciti ad essere tra i fortunati che si sono accaparrati un posticino in sala (strapiena).
Dopo poco è stato annunciato il sold out e sono tantissimi quelli rimasti fuori: è la legge del mainstream, d’altronde.

Siamo dentro, cerchiamo la giusta postazione per assistere al concerto tra scossoni e strattoni – siamo veramente tanti, forse addirittura troppi.
L’età media del pubblico non è alta, Calcutta parla ai ventenni, ai venticinquenni, c’è anche qualche genitore che accompagna il figlio (minorenne).
Questi giovani e giovanissimi si rispecchiano in questo cantautore un po’ sgangherato, dalla voce incerta e dagli arrangiamenti semplici, a tratti quasi banali, ma incisivi.
La musica del disagio, si direbbe.
La musica della noia e della malinconia.
La musica della provincia dimenticata d’Italia, Latina esempio per tutte.
Siamo distanti dal palco, su un pezzo di Samuele Bersani che suona prima del concerto, una ragazza mi chiede «Ma è iniziato?», e sì, qualcosa non va.
Un’altra ragazza sulle note del primo brano esclama «Ah, ora ho capito chi è».
Insomma, non pare siano proprio tutti qui per te, Calcutta, ma sai: è il rischio del mainstream, d’altronde.

Il concerto inizia verso le 23, quando Edoardo (il nome all’anagrafe) sale sul palco, drink in mano e giubbino blu con il cappuccio, che ogni tanto tira su quasi a nascondersi.
Capelli spettinati e barba incolta, uno stile trasandato.
Parte ‘Limonata’ ed è subito ovazione.
Attacca ‘Frosinone’ e se sei al centro, in mezzo al pubblico, un’onda anomala comincia a spingerti avanti e indietro, su e giù, in un mare di ascelle e gomiti, mani e capelli.
Io non ho più l’età per certe cose, mi defilo nelle retrovie.
Si torna un po’ indietro con ‘Cane’, a quel “Forse…” (album lo-fi del 2012), una speranza arricchita da quei puntini di sospensione come a dire “chissà se lo ascolterà mai qualcuno, questo disco” – sì, lo hanno ascoltato.
E poi ancora ‘Fari’, ‘Milano’ e ‘Gaetano’.
Il movimento ondulatorio del pubblico è sempre più insistente, le voci si uniscono insieme in un unico coro, un’acclamazione.
Questa malinconia condivisa e urlata riunisce tutti in un unico abbraccio.
È proprio questo, forse, il punto della situazione: il bisogno di sfogare un po’ di quella angoscia esistenziale che ci opprime, che ci fa cantare tutti insieme questi testi disarticolati, flussi di coscienza di un giovane confuso nell’era di internet.
Parte ‘Le barche’, seguita dal boato di ‘Cosa mi manchi a fare’: è un tripudio.
Un breve intermezzo di tastiera introduce ‘Del verde’, presentata ironicamente come «quella canzone che si chiama ‘accendini’», e tutti accendono le loro fiamme.
‘Amarena’ e ‘Dinosauri’ chiudono il set del live prima del bis.
«Chiedetemi qualche brano che ho già suonato, non ho poi così tanti pezzi».
Ripartono, chiaramente, ‘Frosinone’, ‘Gaetano’ e ‘Cosa mi manchi a fare’.

Io non so se Calcutta ci fa o ci è.
Mi sembra un ragazzo simpatico, genuino; sembra che si sia ritrovato su quel palco per caso, un po’ per una strana combinazione del destino, o della logica del mainstream, tanto per citare ancora una volta il titolo del suo ultimo album.
Non so se è un fenomeno destinato a durare o meno.
Per il momento, continua a collezionare sale piene e concerti di successo: ai posteri l’ardua sentenza.

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Roberta Cacciapuoti

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Insegnante di lettere per vocazione di studi, fotografa musicale per passione. Ogni concerto è un universo a sé stante e per questo ogni fotografia che ne scaturisce è un racconto a sé, narrazione per frammenti, pezzo di un mosaico dove luci, ombre, colori si fondono a creare un tutto organico e denso.

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