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Lazza: un karaoke per la tribù

Il Locura Tour approda al Palazzo dello Sport di Roma

“la contaminazione è diventata il nucleo fondante di parte del rap italiano […] impegnato in una virata verso la musica “suonata”, proprio quando basi, campionamenti ed elettronica sembravano aver stravinto. Vedo e ascolto un’eruzione lavica di suoni hardcore, punk, metal che mi convince e mi coinvolge”

Roma, 30 gennaio 2025 | Ph. Giulio Paravani

Mi preparo al concerto di Lazza rammentando a me stesso che la “Sindrome dell’Età dell’Oro” è uno dei peggiori nemici di chi si occupa di musica. Non risparmia nessun adulto sopra i quarant’anni. Il rimpianto e il vagheggiamento del periodo in cui «…la musica era la migliore di sempre, i film erano capolavori…» e via dicendo, nasconde la resa e la non volontà di riconoscere di aver perso il passo con lo scorrere del tempo.

Trattandosi di un meccanismo di difesa automatico non è immediato adottare le contromisure. Scrivere per un magazine musicale ti offre quantomeno una valida ragione che possa motivare la tua presenza ai concerti in cui, quasi tutti i partecipanti potrebbero essere tuoi figli. Se sei consapevole di quanto sopravvaluti le tue idee di partenza, se ti dimentichi del tuo passato (musicale), e se smetti di prenderti troppo sul serio, e se superi l’imbarazzo di essere scambiato per uno della DIGOS dai ragazzi, e per uno spacciatore da quelli della DIGOS, può capitare che a questi concerti ti diverta davvero. Soprattutto se sul palco c’è un artista valido e preparato: come Jacopo Lazzarini, in arte Lazza.

Chi leggerà le righe del sottotitolo penserà a un gran bel concerto. Chi lo farà dopo aver partecipato alla serata, immaginerà un mio stato di alterazione. Ma quelle parole raccontarono il suo live set sul mainstage dello Sziget a Budapest. Perché quello del Palazzo dello Sport di Roma, a chiusura del tour invernale di Lazza, non è un concerto, ma un gigantesco karaoke, che si differenzia dai tanti che si tengono nelle serate delle migliaia di villaggi vacanze italiani soltanto per il volume della musica e il numero dei partecipanti.

Lazza

Il pre-concerto scorre tra la mia curiosità per quanto accadrà sul palco e un tentativo di corruzione economica per poter usufruire del mio biglietto. Scorro la possibile scaletta: trentasei canzoni, due ore e un quarto di musica effettiva. Al netto delle chiacchiere con il pubblico e delle pause, poco più di tre minuti a pezzo. Tempi ultraveloci per un concerto dal vivo, consuetudine di diversi concerti pop e rap con pubblico molto giovane. E conseguenza drammatica della contrazione del tempo di attenzione: prima che i ragazzi facciano “skippare” il pezzo nel loro cervello e si distraggano, è l’artista stesso a farlo. O effetto di un mercato incentrato sui singoli; per minimizzare il rischio di scontentare i fan si inseriscono quanti più pezzi possibile.

Perché non si viene qui per ascoltare, ma per sancire appartenenza alla tribù attraverso il canto. Nulla di nuovo, ma avendo nelle orecchie la performance magiara arriccio il naso e non ci giro troppo intorno. La parola è una sola: delusione. «È un karaoke» diventa il mantra della serata che ripeto a me stesso. Il palco è coperto da giganteschi teli antracite, quando si sollevano la sorpresa non è, per me, delle migliori. Non esiste  band. Centotrenta bpm di basi, power bass, fuoco, visual, immagini schermi, luci: “mannaggialcazzo” è un karaoke per undicimila persone.

Lazza

Quello che penso non mi mette allegria pensando alla situazione della cultura musicale nel nostro paese. Allo Sziget, festival tra i più prestigiosi del mondo, pubblico e artisti internazionali, musica al centro dell’esperienza e band formidabile al centro del palco. In Italia, per il pubblico medio, con una base e un’innegabile capacità di tenere il palco fai felici tutti e la porti a casa.

Perché è pietosa anche l’acustica, conosciamo tutti l’effetto Palazzo dello Sport. Voce impastata, testi indistinguibili, bassi che continueranno a rincorrersi nella galleria della struttura dell’Eur fino ai primi di aprile. Ma non se ne accorge nessuno. Generazioni abituate ad ascoltare file musicali ipercompressi di qualità scadente, da cuffiette made in China, quando non dall’altoparlante dello smartphone non badano certo alla resa sonora. E poi che importa, conta solo sgolarsi e di coprire anche la voce dell’artista.

È vero, alcune melodie sono ben costruite e si sente un lavoro pensato e curato. Stasera, tuttavia, è solo un karaoke, lo continuerò a ripetere senza timore di ridondanze. E la parte più interessante è la scenografia. Giganteschi schermi che si sviluppano in verticale, per una decina di metri, dalla base del palco, sul quale scorrono immagini forti ed evocative. Demoni, crocifissi, sinapsi neuronali, rovi di spine e petali di rosa, maschere nere, primi piani suoi e del pubblico alla transenna. Rosso, blu elettrico, viola, verde, oro, arancione. Colori pieni, violenti, elettrici si alternano all’asciutto del bianco e nero. Così come nero e bianco, saranno i colori dei suoi due outfit. E infine, scenografiche e gigantesche vampe di fuoco.

Lazza

Le parentesi di stacco, sono gli intermezzi in cui da una botola sotto al palco appare un pianoforte a coda. Sullo sgabello si siede l’inseparabile maestro Aleksander Zielinski, suo primo insegnante, con lui sul palco dell’Ariston, con lui in questo tour. Ma i soli momenti che mi scaldano un po’ sono quelli più dionisiaci e travolgenti, quando invita a nascondere le catenine in tasca, per evitarne gli “strappi”.

Su tutti una versione di ‘Gucci Ski Mask’, meno raffinata nell’arrangiamento del disco, ma indiavolata stasera. Lazza passa la sua vistosa collana (d’oro?) a un roadie sottopalco, e si lancia nella bolgia del pubblico, evitando per un soffio che qualcuno gli sfili i suoi stessi guanti. Il caos del pubblico: «la mia unica ragione di vita» ricorda. Lancia la sfida, provoca e ottiene la reazione voluta. «Vediamo chi fa più casino se voi o io. Per ora sto vincendo io». Ma è una sfida apparente per una generazione in cerca di simboli.

L’appartenenza alla tribù è una religione. Lazza lo ha capito, ma ancora di più lo ha capito l’industria discografica che si sta muovendo per cercare il sostituto di Vasco Rossi nell’immaginario collettivo e ribelle dei teen agers. L’appartenenza e difesa del territorio della tribù è ulteriormente rimarcata da un attacco, contenuto a dire il vero, ai critici del suo ultimo disco, e dai messaggi di hater e follower, ricevuti dalla sua segreteria telefonica, che passano nelle casse dell’impianto tra la prima e la seconda parte del concerto.

Se devo pensare a un testimone raccolto dal rapper milanese non è quello del Blasco, ma di Max Pezzali. Non è una diminutio. Lazza è da sempre suo fan e, qualora legga lo prenderà come un complimento. Messa da parte, almeno stasera, la potenza al fulmicotone dei brani, le canzoni sono commistione di rap e pop, molto pop, a volte troppo, condito dal marchio di fabbrica del suono dei Gen Z: l’autotune

E anche i testi sono ben lontani dalla ribellione e dalla trasgressione del Vasco pre-Bollicine. Dietro la superficie di parole, secondo alcuni violente, ruvide, scorrette, ritrovi la storia delle più classiche canzoni sanremesi, dove a fare le regole non sono le gang di strada o i boss dei quartieri, ma la triade invincibile di “sole, cuore, amore”. I featuring con Laura Pausini, presente tra il pubblico e con Emma Marrone, che appare sul palco, per eseguire ‘Amore Cane’ ne sono evidenza.

Ma attenzione, la stoffa c’è. Lazza regge la scena alla grande. Ha presenza, energia, interagisce con il pubblico senza cali di tensione. Rimarca la differenza tra chi canta davvero e chi usa il playback e i miracoli del cortisone, migliore amico dei cantanti a fine tour. Finisce sfinito, sfiancato a terra sul palco. Linguaccia alla telecamera, il segno delle corna con una mano, prima di dare appuntamento per il tour estivo.

Esco con in testa una frase: «Mi sono comprato casa grazie a voi», che a me ricorda il «mi sono comprato la moto coi soldi vostri» vostri» pronunciata da un giovanissimo Lorenzo Cherubini durante un Festivalbar di parecchi anni fa. Nessuno, tranne il 730, esce vivo dal boa constrictor del pop italiano una volta incontratolo, nemmeno Lazza. Ma stavolta mi dispiace, perché può fare di più, molto di più.

Più di un fottuto karaoke.

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