Iron Savior, heavy metal never dies
di Giovanni Loria 23 Maggio 2025

Iron Savior infiammano Roma: il metallo pesante batte ancora forte nella Capitale
Tra nostalgia, potenza e dedizione, la prima volta della band tedesca al Traffic conferma una verità incrollabile: Heavy Metal Never Dies.
Roma, 22 Maggio 2025 | Ph. © Stefano Panaro
Da antico appassionato di Heavy Metal, declinato nella forma più classica e tradizionale del termine, non potevo lasciarmi sfuggire la prima esibizione romana di sempre degli Iron Savior, che seppur più volte esibitisi lungo il corso degli anni nel Bel Paese, non avevano mai battezzato la Caput Mundi.
L’apertura con i Ghost On Mars
I Ghost On Mars hanno sostituito nella data romana gli Holy Shire, che per un problema di un musicista hanno dovuto saltare le tre date in programma.
L’esibizione dei Dragonhammer
Ad aprire la serata ci pensano i Dragonhammer, e qui voglio essere sincero: non sono mai stato un particolare estimatore del cosiddetto Power Metal. Ne contesto addirittura la definizione stessa, perché negli anni ’80 posso assicurarvi che con questo termine venivano etichettate quelle band che si distaccavano dalla tradizione ‘pane e salame’ di gente come Accept o Saxon e, senza sconfinare nel thrash, eseguivano una forma di metallo più elaborata, audace e aggressiva: è il caso di nomi a me rimasti assai cari quali Liege Lord, Metal Church, Savage Grace o Jag Panzer.
Ciò che le generazioni successive hanno impropriamente definito power metal è una sorta di speed metal melodico e trionfante, sovente dalle forti connotazioni melodiche, capace grosso modo di fondere assieme le illuminate lezioni di Helloween e Yngwie Malmsteen: un genere reso per anni vincente dal successo, per fare solamente un paio di esempi, degli Stratovarius o dei nostrani Rhapsody. Quasi tutti nomi che apprezzo assai… sono gli innumerevoli epigoni che sovente aborro.
Ciò detto, i Dragonhammer mi hanno piacevolmente colpito: non parlerei però di sorpresa, perché scavando nella memoria ho riportato alla mente un’altra loro convincente prestazione dell’ormai lontano 2010, quando al Blackout aprirono per i Primal Fear, anche se da allora la line up del gruppo è stata pressochè rivoluzionata.
In primis, il sestetto romano può cantare su un cantante dalla notevole estensione, nella figura di Mattia Fagiolo: non era facile farsi largo nell’imponente tessuto sonoro costruito dai suoi cinque sodali. In secondo luogo, i due chitarristi, dividendosi democraticamente le parti soliste, hanno dimostrato di essere entrambi tecnicamente impeccabili, e dotati di gran gusto melodico.
Particolare menzione per Flavio Cicconi anche perché, appena l’ho visto sul palco, non ho potuto fare a meno di notare la sua somiglianza con un mio eroe personale quale Pat Simmons dei Doobie Brothers. E siccome alla fine della fiera la differenza la fanno sempre le canzoni, non posso certo negare di avere apprezzato autentiche staffilate quali ‘Kill Or Die’, ‘Sickness Divine’ (tratta dal loro ultimo full length ‘Second Life’) o ‘Blood In The Skies’, mentre ‘Into The Warrior’s Mind’, presentata dal frontman come il brano più epico mai inciso dal gruppo, non mi ha convinto fino in fondo, probabilmente a causa del ricorso a qualche clichè un po’ abusato.
Iron Savior, una certezza
Qualche minuto di attesa, e gli Iron Savior si sono materializzati sul palco, di fronte ad un pubblico non troppo numeroso ma sicuramente caldo e ben disposto.
Sono trascorse quasi tre decadi da quando la creatura di Piet Sielck esordì con l’omonimo cd: una godibilissima uscita che sembrava preludere ad una carriera sfolgorante, anche a causa della presenza di ospiti di lusso quali Kai Hansen, Hansi Kursch ed altra gente collegata a Gamma Ray e Blind Guardian. Poi, inutile negarlo, le cose sono andate in maniera un po’ differente. Sielck e compagni non hanno fatto il grande salto, e d’altronde quella seconda generazione di difensori della fede, manifestatasi in Germania nell’ultimo decennio del secolo scorso, si è dissolta come neve al sole. Chi ricorda più infatti nomi pur meritevoli quali Unrest, Capricorn, Enola Gay, Ivanhoe o Pan Ram?
Non sono più una promettente all-star band gli Iron Savior, ma una solida realtà di puro e fumigante metallo pesante dedito alla Vecchia Scuola, sempre magistralmente diretti dal gran cerimoniere Sielck, che pur professandosi giù di voce, mi ha fatto un’ottima impressione sia come cantante che dal punto di vista chitarristico.
Dal classicone ‘Together As One’ alla più recente ‘Condition Red’, il four piece teutonico ha sciorinato una sequela di brani dalla lieve, godibilissima ispirazione Priestiana, non rinunciando certamente a manifestare la più totale adesione ai dettami più tradizionali del Metallo Pesante, attraverso anthem che già dal nome (‘Heavy Metal Never Dies’ o ‘In The Realm Of Heavy Metal’) spiegano la loro attitudine molto più chiaramente di qualunque mia parola.
Ingenui? Ruffiani? Poco Originali? Prevedibili? Probabilmente ognuna di queste accuse agli Iron Savior nasconde un pizzico di verità, ma ciononostante Sielck e soci hanno dato prova di entusiasmo e professionalità, forti di un repertorio ormai rodato che ha lasciato assolutamente soddisfatti tutti noi vecchi appassionati metalheads accorsi ad omaggiarne l’ormai prossimo trentennale.
Ed ogni dubbio residuo, gli Iron Savior lo hanno spazzato via con l’intimidatoria doppietta finale, costituita da una ‘Atlantis Falling’ ripescata proprio dall’ormai lontano esordio, e da una ben riuscita cover dell’immortale ‘Breaking The Law’ del Sacerdote di Giuda, che almeno per una sera è stato il mio unico credo.
Facile, ma dannatamente veritiera, la chiosa finale: finchè anche gruppi minori come gli Iron Savior resteranno così vibranti e ancora in grado di suscitare queste emozioni, ‘Heavy Metal Never Dies’!