Il rock dei Pearl Jam: uno, nessuno e centomila
La capacità di trasformare il rock in emozioni dure che scavano nel tempo personale di ognuno e che per uscire hanno bisogno di intimità.
L’effetto del concerto dei Pearl Jam del 26 giugno, al ritorno a Roma dopo ventidue anni, è proprio questo: non un rito collettivo, come nei classici eventi musicali ma una moltitudine che si fa solitudine.
Vedder è cresciuto in questi anni e con lui tutta la band.
Il grunge, le fonti che lo ispirarono sono fuggite via anni fa con Cobain; eppure i Pearl Jam sono rimasti i riferimenti culturali di almeno quattro generazioni.
Le loro canzoni, le più datate e le più recenti hanno mantenuto quel potere di sviscerare le parti buie che ognuno di noi nasconde.
Ed elaborarle.
In fondo il rock nelle sue migliori espressioni ha sostituito il teatro greco nella sua funzione catartica.
Vedder ha assunto questa sorta di dimensione omerica: gioca con sé stesso, con la sua poetica, con la sua band, con la creatività di altri artisti.
Fa tutto suo, e in fondo è quello che chiede ogni volta al suo pubblico, e cioè di appropriarsi delle emozioni e della realtà e farle nostre.
Questo legame è un legame forte che ha creato un ponte di comunicabilità tra noi e lui che è sul palco; cordone che i suoi compagni d’epoca come Cobain e Cornell hanno faticato a costruire; con il finale che abbiamo conosciuto.
In fondo il rock ha salvato la vita a molti di noi, ma lo ha fatto anche con Vedder.
Venendo all’aspetto strettamente musicale, i Pearl Jam si sono concessi molto a Roma in questa fresca notte di estate: forma pazzesca per Stone Gossard, Mike McCready, Jeff Ament e Matt Cameron che nella parte iniziale sembrano persino più sciolti di Vedder, forse ancora timoroso per la raucedine che lo aveva colpito a Londra.
Dopo ‘Elderly woman behind the Counter in a Small Town‘ ecco arrivare la prima cover della serata: ‘Interstellar Overdrive‘ dell’epoca Barrett/Pink Floyd.
Poi tutto il miglior repertorio dei Pearl Jam, da ‘Corduroy a Given To Fly‘ passando per ‘Do the Evolution‘, ‘Wishlist‘, ‘Even Flow‘, ‘Lightning Bolt‘, ‘Porch‘ e la recente ‘Can’t Deny Me‘.
Il primo bis omaggia una emozionante ‘Imagine‘ di Lennon e una furiosa cover di ‘Black Diamond‘ dei Kiss con Cameron alla voce, prima del trittico da knock out ‘Daughter‘, ‘Jeremy‘ e ‘Better Man‘. Non mancano gli intermezzi politici tra cui la critica avvolta di arcobaleno a Trump e all’italica chiusura dei porti.
Ma su tutto, una frase in cui c’è tutto il Vedder-pensiero: «Never give up».
Il saluto alla filosofia grunge.
Ci si avvia al termine ancora con una scarica di adrenalina e bravura: omaggio a Waters per ‘Comfortably Numb‘ (con un fedele tocco chitarristico di Mike McReady), e poi è il turno di ‘Black‘, ‘Rearviewmirror‘ e ‘Alive‘.
Il finale, l’ormai consueto atto d’amore verso la musica e il mondo: quella ‘Rockin’ in the Free World‘ di Neil Young, che è un inchino ai maestri quelli buoni, quelli che hanno tracciato la strada su cui loro e noi camminiamo.
Insieme e da soli.
L’anno scorso a Firenze fu una stella cadente a illuminare la notte durante ‘Imagine‘; stanotte è venuta sua maestà la Luna nella sua interezza ad assistere alla potenza di una voce, di una band, di un rito che la città eterna aspettava da ventidue anni.
Voglia di urlare e ascoltare rock.
Di quelli che da un senso alla vita e non solo ad una notte.
Anche se quelle fatte di musica che i Pearl Jam hanno regalato stasera in oltre tre ore, tracciano la linea del nostro tempo.
Per sempre.