Giardini di Mirò, sempre dritti al punto

Per un gruppo di culto come i Giardini di Mirò si riaccendono le luci della ribalta anche al Colorificio Kroen di Verona, il 9 febbraio.
Alla pubblicazione di “Different times” nelle ultime settimane del 2018 seguono in questo inizio di nuovo anno una serie di concerti in ogni angolo d’Italia per la band di Reggio Emilia, che da vent’anni è riconosciuta all’unanimità come nome di spicco del post-rock di casa nostra.
Diverse sfumature sonore hanno accompagnato le fasi della loro carriera, ed è sempre interessante mettere alla prova dal vivo una proposta musicale che può sembrare estremamente ostica, anche se i Giardini di Mirò sono spesso stati bravi a proporsi in maniera “digeribile”.

Dalle terre emiliane proviene anche il gruppo di apertura, gli ARTO, che dopo un introduzione di archi e voce prendono la scena e iniziano a far vibrare gli impianti, con un piglio poco confortante.
ARTO
Prendono suoni sottili e acuti dai richiami di film horror anni Ottanta, trascinandoli con iterazioni in crescendo in stile drone music.
C’è un certo autocompiacimento, tipico di questo genere, tra le continue variazioni di tempo che si susseguono, senza grosse manipolazioni del suono eccetto qualche interessante appesantimento alla linea ritmica.

I Giardini di Mirò si presentano con un aspetto ben più luminoso, con un inizio aperto e che sale poco a poco, con ‘Different times‘, prima traccia e pezzo che dà il nome all’ultimo disco.
Si porgono in modo chiaro e accomodante, con una struttura ricca ma che non appare pretenziosa, grazie anche all’apporto dei fiati che schiarisce ulteriormente le tinte.
Quando i brani assumono una forma canzone più classica, suonano invece più grevi, usando la tromba come una sorta di voce aggiunta che fa da volano e asseconda l’umore di fondo del brano stesso.
Giardini di Mirò
Mostrano tutte le loro facce, i Giardini di Mirò, e risultano tutte gradevoli, alcune venate quasi di pop, altre più ritmate con un basso vivace che dà comunque un’idea di melodia limpida. Si aprono e si allargano insinuandosi tra le pieghe del suono, facendo attenzione a non graffiare. Nelle accelerazioni sono sempre composti e non si azzardano a frantumare la barriera che si crea tra palco e pubblico. Le chitarre ordinate e oneste si mettono in primo piano, il basso riempie e fa da appoggio con alcune digressioni.

Qualche gesto ad effetto aggiunge incisività ai pezzi, che sia qualche accenno di feedback, qualche finale sopra le righe o qualche colpo ben assestato a dare un tono in crescendo. I Giardini di Mirò non si annodano in esercizi di stile e arrivano quasi sempre svelti al punto, salvo qualche passaggio finale in cui sembrano dilungarsi, ricorrendo anche al violino, facendo avvertire una certa flessione del tiro, che fino a quel momento non è mai venuto meno.

La ripresa di intensità arriva per il finale di set con ‘Fieldnotes‘, preparando un encore dall’ottima esecuzione e ben impostato. Il rientro è melodico e sentimentale con ‘Don’t lie‘, ma per ‘Rome‘ decidono di sfoderare tutto il suono e tutto il riverbero che hanno a disposizione, con il basso a sforzare e ad accelerare. La sfida live dei Giardini di Mirò è da considerarsi vinta con merito, le diverse anime del suono dei loro dischi e gli anni di militanza sul palco si dimostrano un valore indiscutibilmente aggiunto.

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Matteo Ferrari

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Nato nel 1984 nell'allora Regno Lombardo-Veneto. Un onesto intelletto prestato all'industria metalmeccanica, mentre la presunta ispirazione trova sfogo nelle canzonette d'Albione, nelle distorsioni, nei bassi ingombranti e nel running incostante.

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