Gianna Nannini e le catene del tempo spezzate
L’artista senese è sempre una “Meravigliosa Creatura”
Due ore di energia ed emozioni al Palaeur di Roma
Roma, 21 Dicembre 2024 | Ph. Giulio Paravani
La motivazione che mi spinge ad andare con curiosità al concerto di Gianna Nannini affonda le radici in un preciso periodo della mia vita passata e a un interrogativo della mia vita presente che comincia a riguardarmi. A vent’anni indicavo la cantautrice senese compagna ideale per un avventura on the road. Non potevo dirmi fan, ma le riconoscevo, autenticità, energia, credibilità, coerenza, spontaneità, scarsa disposizione verso i compromessi; l’aver strizzato sì l’occhio al mercato, senza eccedere. E poi amavo quel gusto della provocazione tipico delle persone di provenienza borghese che decidono di voltare le spalle alla famiglia e al destino altrimenti tracciato.
Da un po’ di tempo invece comincio a chiedermi se e quanto si possa mantenere la stessa credibilità nel presentarsi ai fan, e più in generale, al pubblico e in società, indossando la ribellione dei vent’anni una volta che i cinquanta si sono superati da un pezzo. Pur essendo convinto che non ci siano regole universali e che non ci siano età giuste o sbagliate se si adottano comportamenti allineati ai nostri valori e identità, è anche vero che nulla come il palco del rock è in grado di svelare quando ciò non si verifica e restituirci l’immagine di un re nudo, in questo caso regina, convinto di indossare ancora dei vestiti bellissimi.
Certo è che a vedere le date del tour, Gianna Nannini di voglia ed energia dimostra di averne. Sono quattordici serate in un mese di tour che ha toccato nell’ultimo mese tre nazioni europee. La Germania fa la parte del leone. Nove date, tra le quali Monaco, Berlino, Essen, Francoforte, Hannover. Non certo piccoli paesi. A queste si aggiungono le date svizzere di Ginevra e Zurigo e le nostrane di Jesolo, Milano e, stasera, Roma.
Arrivo al Palaeur (Palasport non mi entra in testa) e mi accorgo che trattasi di concerto da inserire nella categoria “macchina del tempo”. Un live rivolto ai fan storici, a cui si partecipa per andare a ripescare le emozioni di un tempo. Sono sempre meno coloro i quali vanno ad ascoltare musica per il gusto della scoperta; o sei fan di chi si esibisce, o sei accreditato. Da un certo punto di vista semplifica la vita a me che devo scriverne, dall’altro è un segnale abbastanza preoccupante per il destino della musica e di chi prova a farla con qualità.
Il palco regala un bel colpo d’occhio: catene, catene e ancora catene. Di diversa lunghezza, a decine pendono dall’alto. Altre sono avvolte alle aste dei microfoni; altre ancora agli amplificatori, ai supporti delle tastiere e al piano. A catturare l’attenzione è anche la batteria, spostata sulla sinistra del palco. Ne ricordo raramente una così mastodontica. Doppio rullante, doppia cassa, doppio timpano, una serie di sette tom e sette piatti, che diventano otto con il charleston. Penso a Jeff Porcaro Mike Portnoy, Bill Bruford, Phil Collins, Gavin Harrison, Vinnie Colaiuta e tra me e me concludo con “vabbe’ ma chi la dovrà mai suonare?”.
Si avvicina l’inizio del concerto e sono sempre meno i buchi tra il pubblico del PalaEur. L’affluenza è più che soddisfacente e supera le mie aspettative. I posti a sedere in platea non frenano i fan più determinati a conquistarsi un posto in piedi alla transenna, nonostante il parere contrario della security. Ne nasce il solito siparietto, vinto dai primi, che approfittano del fatto di essere costituiti per una gran parte da donne e da persone non più giovanissime, cosa che impedisce ai secondi di usare modi più marziali del solito. Io mi piazzo in piedi, in fondo al parterre, il mio posto d’elezione.
Poi in perfetto orario il buio, le immagini dell’intro sul videowall, primi piani sullo sguardo dell’artista senese che entra indossando un giubbotto di pelle biancorosso, il suo nome scritto a caratteri gialli sulle maniche, pantaloni neri, sempre di pelle, canotta nera. Insieme a lei la band con grinta, energia e cattiveria. Davide Tagliapietra alla chitarra elettrica e alla direzione musicale, Milton McDonald chitarra elettrica, Francis Hylton al basso, Cristiano Riganò pianoforte e tastiere, Isabella Casucci e Sofia Gaudenzio ai cori.
Ricordate la batteria? Al nome di colui che siede sul seggiolino dietro alle pelli mi tremano stomaco, piloro, cardias e diaframma. È un signore che si chiama Simon Phillips. Evito di elencare progetti, band e musicisti che lo hanno visto come protagonista. Occuperei un paragrafo intero. Se volete togliervi il capriccio basta un click sul link evidenziato in corrispondenza del suo nome.
La parola passa alla musica. Un’ora e cinquanta minuti di concerto lungo le montagne russe di quasi cinquant’anni di carriera, che non sembra volersi concludere. Poche chiacchiere tra un pezzo e il successivo. Protagonista in assoluto la musica, lo si capisce anche dalle immagini sullo schermo in cui giganteggiano i primi piani dei musicisti. Conosciamo bene l’acustica del Palaeur, ma le tecnologie contemporanee consentono di ovviare in buona parte ai problemi di sempre e dopo un paio di pezzi si trova un equilibrio tra i suoni più che accettabile.
‘Radio Baccano’ è il primo picco di dopamina e adrenalina. Tutti in piedi o quasi, in platea e sulle tribune. Non sarà mai banale un pezzo che al tempo riusciva a farmi alzare dal letto in modo indolore alle sette del mattino. Sollievo: Gianna Nannini ha ancora una voce in grado di reggere l’impatto anche con le sonorità dei pezzi più rock e grintosi. Nelle parti più faticose danno una mano le ragazze ai cori, ma non accade troppo spesso. La grinta c’è e colgo in lei una punta di fastidio nel vedere parte della platea in piedi, mentre invita ad abbandonare le sedie, trovando seguito da una parte del pubblico più pigro. Non sarà mai tardi per seguire il “modello Billy Joel” ai concerti.
Quando la band si prende qualche minuto di riposo, Gianna Nannini resta sola con il piano e le tastiere per ‘La Differenza’. Migliaia di cellulari accendono le torce e fanno da effetto stelle. È un altro momento di massima intensità emotiva, Segue dall’omaggio a Janis Joplin, con la sua storica versione di ‘Me And Bobby Mc Gee’, scritta da Kris Kristofferson, incisa e inserita dalla cantautrice della Nobile Contrada dell’Oca in “California”.
Poi la sequenza ininterrotta dei suoi più grandi successi. ‘Fotoromanza’ e le immagini sul videowall a richiamare i vecchi provini fotografici su pellicola. Da brividi l’apertura a cappella di ‘Meravigliosa Creatura’, cui si aggiungono le voci delle migliaia di persone presenti qui stasera. I musicisti danno il meglio, sono affiatati e i brani scorrono con fluidità. Non ci sono particolari arrangiamenti, ma i concerti “macchina del tempo” richiedono soltanto la maggiore fedeltà possibile ai brani originali. Il pubblico desidera emozioni forti, il pubblico ottiene emozioni forti.
Sarà una mia impressione, ma nei concerti stanno tornando gli assoli di batteria. In apertura di ‘Hey Bionda’ Simon Phillips potrebbe stupirci con fuochi d’artificio e sfoggio di virtuosismi, invece ci ipnotizza con una performance di grandissima eleganza e classe. Giocando con i feltri sui sette tom, crea un loop infinito lavorando magistralmente sulle dinamiche e sul suono. Una lezione di batteria in cinque minuti. ‘Latin Lover’ è un treno lanciato a tutta velocità, mentre la citazione dei Rammstein mette le cose in chiaro, prima dell’esplosione di ‘America’. Adesso bisogna scatenarsi.
‘Un’Estate Italiana’ chiude un concerto divertente e coinvolgente. La ragazza sta in forma e controllare il suo anno di nascita mi regala sorpresa e sollievo. Gianna Nannini conferma come il rock and roll sia la piscina dell’eterna giovinezza, e che, mantenendo integrità e sincerità con sé stessi, si possano indossare giubbotti e pantaloni di pelle anche quando l’opinione comune vorrebbe il contrario. E liberarsi dalle catene del tempo, spezzandole e lasciandole penzolare a corpo morto dalla struttura di un palco. Per stasera direi che sia abbastanza.