Frontiers Rock Festival 2025 | Day 01 | Asia

di Max Murgia 26 Aprile 2025

Al Live Music Club di Trezzo torna di nuovo in scena il Frontiers Rock Festival, giunto alla settima edizione
La prima spettacolare giornata si chiude con il trionfo degli Asia
Trezzo Sull’Adda (MI), 25 Aprile 2025
A sei anni di distanza dall’ultima edizione, torna finalmente lo spettacolare Festival della Frontiers Records, un appuntamento imperdibile per tutti gli amanti del rock melodico e dell’AOR, un genere di cui l’etichetta è diventata praticamente sinonimo. In realtà Frontiers, guidata dal mitico presidente Serafino Perugino, non è più solo la label melodic rock per antonomasia, avendo progressivamente ampliato i propri orizzonti anche a generi e settori meno di nicchia.
Lo dimostra il lancio del nuovo imprinting FLG (Frontiers Label Group) e l’ingresso in scuderia di nomi decisamente rilevanti come Jon Anderson, Skunk Anansie e Megadeth. Assolutamente non trascurabile poi il grande lavoro di ricerca di nuovi talenti, andandoli a scovare anche laddove meno ce lo saremo aspettati, in territori all’apparenza meno assimilabili al rock’n’roll ma non per questo privi di grandi talenti, e che hanno fornito alla label nuova linfa vitale proveniente dal Sud America piuttosto che dall’India o dall’Australia.
Il primo amore però non si scorda mai. La nuova scommessa di Serafino Perugino era di riportare in vita una manifestazione amatissima come il Frontiers Rock Festival, una vera e propria istituzione in campo melodic rock, un’autentica manna per i fan del genere e che per sei edizioni tra il 2014 ed il 2019 ha regalato tantissime soddisfazioni sia al pubblico che alla label stessa. Soddisfazioni spesso e volentieri però non supportate dal ritorno economico, perché per quanto altisonanti siano stati i nomi coinvolti, questo è un genere che in Italia resta assolutamente di nicchia – tanto che buona parte del pubblico partecipante alle varie edizioni del festival non risulta dotato di passaporto italiano.
Un aspetto sicuramente meno noto a chi non ha mai frequentato il FRF è quello social, in cui la musica assume una rilevanza che trascende il valore di chi sale sul palco e si esibisce, e diventa strumento catalizzatore di persone. Non vorremmo suonare troppo melodrammatici, ma in questo ambito ci si conosce un po’ tutti, e l’annuale appuntamento al Live Music Club di Trezzo era diventato una sorta di happening in cui l’evento musicale di per sé diventava un’ottima scusa per incontrare tanti amici vicini e lontani, con cui condividere la comune passione e trasportare nella vita reale rapporti che, causa distanza, per la maggior pare dell’anno restavano legate alle comunicazioni via social.
Il Frontiers non è uno di quei festival abnormi dove trovarsi circondati da migliaia di persone sconosciute. Il taglio medio-piccolo ed una location come il Live Music Club di Trezzo, perfetta per questo genere di eventi, lascia ampio spazio alla convivialità e favorisce la caduta delle barriere tra i musicisti ospiti ed il pubblico, offrendo a tutti la possibilità di incontrare e scambiare quattro chiacchiere e farsi un selfie con l’artista preferito.
Questa nuova edizione del Frontiers Rock Festival vede inoltre il ritorno della formula a tre giornate, resa popolare dalla primissima edizione. Chi c’era, ricorderà benissimo il bill mostruoso messo in piedi per quell’occasione. Questa nuova edizione targata 2025 offre altrettanta abbondanza e qualità, con un ottimo bilanciamento tra grandi nomi protagonisti del genere, e nuove interessanti realtà che potremo testare, una volta tanto, non solo su disco ma anche alla prova del palco.
Per fare qualche numero, nelle tre giornate avremo modo di assistere all’esibizione in elettrico di ben 21 tra band ed artisti solisti, tutti quanti appartenenti al roster della label, il che dovrebbe darvi una buona idea di quale sia la rilevanza di Frontiers in un mercato discografico come quello attuale. I fortunati possessori di ingressi VIP potranno aggiungere all’esperienza altri sei miniconcerti acustici, equamente suddivisi tra le giornate di sabato e domenica.
Fans Of The Dark
La carne al fuoco è tantissima, addentriamoci quindi nella prima giornata della manifestazione, che con metronomica precisione si apre alle 14:45 di venerdì 25 aprile quando sul palco fanno la loro comparsa i Fans Of The Dark.
Con due album ed un Ep di cover rilasciati nei cinque anni della loro esistenza, i FOTD sono la creatura nata dall’unione del batterista Freddie Allen e dal cantante Alex Falk, quest’ultimo un vero animale da palcoscenico, per quanto presenza scenica e stage-attire non possano essere più lontani dallo stereotipo del front-man hard rock.
Dal momento che di stereotipi non ne abbiamo bisogno, ci godiamo per una mezz’oretta il convincente sound della band che si muove tra classico AOR ed hard rock, con giusto quel tocco di modernità che ne svecchia il sound, con nota di merito per l’innata simpatia con cui hanno subito conquistato il pubblico di questa prima giornata.
Tra i pezzi da segnalare, ‘Christine’ e ‘Let’s Go Rent A Video’ dal loro ultimo album “Video” e ‘Night Of The Living Dead’ dal precedente “Suburbia”. Nota di cronaca, all’ultimo momento il fondatore Freddie Allen non ha potuto essere della partita, costringendo la band a reclutare in corsa il nostro Maro Sacchetto, che si è dovuto studiare il set giusto la notte prima del concerto.
Art Nation
Seguendo una rigorosa scaletta che prevede uno stacco minimale tra un gruppo e l’altro (una ventina di minuti, lo strettissimo necessario per il cambio palco) ecco arrivare n stage gli Art Nation, nome già abbastanza noto nell’ambiente, grazie anche alle doti canore di Alexander Strandell.
Anche loro sono svedesi, sono attivi dal 2014 e la loro discografia conta già 5 album, l’ultimo dei quali (“Chapter V – The Ascendance”) è uscito proprio oggi, in occasione della loro apparizione al FRF. Con un sound (and un look) dal piglio decisamente più moderno e metallico di quanto proposto in passato, la band mantiene comunque la naturale propensione alla melodia.
Chi scrive non è certo il loro più grande fans, la loro proposta non rivoluzionerà di certo la storia della musica, ma il pubblico ha gradito e questo dovrebbe essere più che sufficiente. Come era lecito aspettarsi, il loro set punta molto sull’ultimo disco, con ‘Lightbringer’, ‘Thunderball’ e ‘Halo’ tra i brani presentati questo pomeriggio.
Shakra
Con quasi trent’anni e 13 dischi alle spalle, gli Shakra vanno annoverati tra i veterani della scena hard rock/metal svizzera. All’inizio di quest’anno hanno annunciato il sodalizio con Frontiers, per la quale al momento hanno fatto uscire il singolo ‘Burning Heart’. Quanto basta però per chiamarli come terzi ospiti di questa prima giornata di festival.
Forti di un catalogo consistente e ben rodati dalla pluriennale carriera, gli Shakra offrono un convincente heavy rock melodico, magari non particolarmente originale ma sicuramente efficace. Difficile trovargli dei difetti: la band suona compatta e – con tutto il materiale a disposizione – non deve essere stato difficile estrapolare otto brani con cui affrontare la prova del Frontiers.
Così è stato, e grazie a pezzi come ‘A Roll Of The Dice’, ‘Invincible’ e la conclusiva ‘Rising High’ il combo d’oltralpe porta a casa il risultato senza neanche dover faticare più del dovuto, grosso merito del quale va accreditato al front-man Mark Fox, padrone del palco e trascinatore di folle.
Bonfire
Musicalmente parlando, questa prima parte della giornata risulta dominata da suoni che, pur mantenendo il focus sulla melodia, si sono attestati nella sezione più hard dello spettro sonoro previsto dal festival. Suoni, peraltro, che tenderanno a non ammorbidirsi nemmeno con gli ospiti successivi.
È infatti arrivato il turno dei Bonfire, storici alfieri del Class Metal tedesco che il vostro umile reporter ha letteralmente adorato nella seconda metà degli anni Ottanta, grazie a tre album di grandissimo spessore come “Don’t Touch The Light”, “Fireworks” e “Point Blank”, tre dischi cromati e zeppi di canzoni-killer con cui la premiata ditta Lessmann/Ziller portò la band a sfiorare la popolarità degli Scorpions e degli Accept su entrambe le sponde dell’Oceano Atlantico.
Di quella formazione l’unico superstite odierno è il buon Ziller, che peraltro questa sera brilla per la sua assenza. Lungi da noi azzardare anacronistiche e irriverenti comparazioni tra la formazione dell’epoca e quella odierna, sta di fatto che, quanto meno a livello soggettivo, chi scrive non può non considerare quanto il falò del passato bruciasse ben più intensamente di quello attuale.
La band vede questa sera schierata il nuovo front-man Dyan Mair, il veterano Ronnie Parkes al basso, Frank Panè alla chitarra mentre alla batteria troviamo il nostro Fabio Alessandrini, che già abbiamo visto in seno agli Annihilator.
Nel set troviamo diversi pezzi della nuova produzione e qualche richiamo al passato (‘Champion’, ‘Ready 4 Reaction’), un Panè la cui chitarra è sempre una sicurezza e il drumming terremotante del nostro Alessandrini, ben coadiuvato dal basso di Parkes. Performance tutto sommato accettabile, forse un po’ deludente rispetto alle aspettative.
Honeymoon Suite
La manifestazione entra progressivamente nel vivo con l’ingresso in scena degli Honeymoon Suite da Niagara Falls, Canada. Praticamente sconosciuti dalle nostre parti, gli Honeymoon sono da 45 anni a questa parte una sorta di istituzione in campo AoR, probabilmente giusto un gradino sotto lo status di divinità. E qui non possiamo che rimarcare uno dei maggiori meriti di operazioni come il FRF, senza le quali sarebbe stato impossibile avere su un palco italiano una formazione di questo livello.
Il nucleo storico della band è ancora quello di una volta, con il cantante Johnnie Dee solidamente affiancato da Derry Grehan alla chitarra, da Gary Lalonde al basso e da Dave Betts alla batteria. Il solo estraneo, per modo di dire, è il tastierista Peter Nunn che in ogni caso pigia i tasti per la band da oramai 25 anni.
Sono sufficienti le prime note di ‘Say You Don’t Know Me’ per renderci conto di come il livello della manifestazione abbia immediatamente fatto registrare un picco vertiginoso.
Pur avendo un nuovo album all’attivo (“Alive”), il set si concentra sui primi quattro dischi della band. Detto in termini estremamente pratici, per gli amanti del genere vedere gli Honeymoon Suite a pochi metri di distanza inanellare una dietro l’altra gemme come ‘Burning In Love’, ‘New Girl Now’, ‘Lookin’Out For Number One’ e ‘Love Changes Everything’ è stato come raggiungere, per un’oretta abbondante, una sorta di Nirvana musicale. Grazie Mr. Perugino per questa magnifica opportunità.
Pride Of Lions
Per i non iniziati alle straordinarie gioie dell’AoR, il nome Pride Of Lions dirà poco o nulla. Male, perché dietro a quel monicker si celano il gran visir di tutti i song-writer AoR, Jim Peterik dei Survivor, e la straordinaria voce di Toby Hitchcock.
Questa è la loro seconda apparizione al FRF, avendo già partecipato all’edizione del 2015 come headliner. La qualità di questa accoppiata vincente non è nemmeno lontanamente discutibile: il livello è talmente alto che anche in un’eventuale giornata negativa darebbero qualche giro di pista a chiunque.
I due sono questa sera accompagnati da una backing band tutta italiana, in buona sostanza si tratta dei musicisti che militano negli Hell In The Club. E siccome la sfortuna è sempre dietro l’angolo, apprendiamo con malcelata disperazione che il buon Toby si è svegliato questa mattina privo di voce. Fortunatamente le voci di corridoio che davano in pericolo lo svolgimento della loro esibizione vengono prontamente smentite quando i due si presentano sul palco.
Le difficoltà di Toby sono evidenti, ed infatti spetta al buon Peterik, che gran cantante non è, metterci un minimo di pezza, poi aiutato nell’impresa da un altro vocalist d’eccezione, Robin McAuley che si unisce alla compagnia per prestare anche la propria voce e far sì che lo show possa venir portato regolarmente a termine.
Fatto sta che il concerto prende una piega imprevista, e si sposta su un versante del tutto emozionale: nessuna scena isterica, lo stesso Toby viene calorosamente supportato dal pubblico per una performance che alla fine conterà solo una manciata di pezzi propriamente dei Pride Of Lions (‘It’s Criminal’, ‘Gone’ e ‘Sound Of Home’) lasciando poi spazio ai classiconi dei Survivor, da ‘Eye Of The Tiger’ a ‘The Search Is Over’ fino al gran finale con ‘High On You’, ‘I Can’t Hold Back’ e l’immancabile ‘Burning Heart’, cantate (alla grande) da Robin McAuley.
Ironia della sorte, i Survivor hanno nel proprio repertorio un brano spettacolare con un testo altrettanto spettacolare che nel ritornello afferma ‘when there’s magic in the music, it’s the singer not the song’. Beh, oggi quel pezzo è stato contraddetto e smentito perché la forza, la bellezza e la popolarità di quelle canzoni è tale per cui, alla fine della fiera, poco importava chi le stava cantando sul palco, perché tutto il pubblico le stava già cantando con loro, con un trasporto emotivo difficilmente riscontrabile in altri contesti.
Bellissimo e quasi commovente constatare come anche nei momenti più critici, con questi piccoli grandi episodi vediamo manifestarsi la magia del Frontiers.
Asia
E la magia non è finita perché è arrivato finalmente il momento dei primi headliner. Si tratta di una delle esibizioni più attese, perché coinvolge il nome di uno dei più importanti supergruppi che il mondo del rock abbia partorito: gli Asia, la band nata dalla divina unione di Steve Howe, Geoff Downes, Carl Palmer e John Wetton. Una formazione che negli anni ha subito innumerevoli trasformazioni fino a tornare, 20 anni dopo, alla sua incarnazione originali, con i quattro titolari finalmente riuniti.
La scomparsa di Wetton mise definitivamente la parola fina a questa meravigliosa creatura che pareva destinata alla definitiva estinzione. Grazie ad una serie di concerti tributo in memoria di John Wetton, Downes pescò dal cilindro John Mitchell, un chitarrista sopraffino ma poco conosciuto al di fuori della scena neo-progressive, e lo straordinario talento di Harry Whitley, un giovane bassista e cantante cresciuto a pane e John Wetton. Da qui l’idea di riportare sui palchi quei pezzi che hanno reso gli Asia quel che son diventati. Una volta reclutato un drummer d’eccezione come Virgil Donati, la formazione era pronta per rinverdire i fasti del passato, con una tournee mondiale prontamente battezzata ‘The Heat Of The Moment Tour’ e che finalmente abbiamo la possibilità di gustare anche su di un palco italiano.
L’emozione in sala è palpabile, ma diventa vibrante quanto sul maxischermo appare l’iconico logo disegnato da Roger Dean. Downes prende posizione dietro alle tastiere, seguito dai tre nuovi Asia che danno il via ad uno show che ripercorrerà tutta la carriera della formazione classica, pescando a piene mani dai primi tre album (“Asia”, “Alpha” e “Astra”).
Se da Downes non potevamo che aspettarci la consueta maestria tastieristica, pomposa e magniloquente e sempre così dannatamente affascinante, rimaniamo immediatamente impressionati dalla performance di Harry Whitley, che di Wetton non ha solo preso le apparenze ma anche le qualità tecniche. La sua interpretazione di ‘The Smile Has Left Your Eyes’ è letteralmente da brividi, di Wetton ha preso pure le nuances vocali.
John Mitchell non è un chitarrista particolarmente conosciuto dal grande pubblico, ma nella scena nep-progressive è considerato una semi-divinità. La sua chitarra caratterizza la musica degli Arena, degli It Bites, dei Kino e dei Frost*, per non parlar del suo progetto solista Lonely Robot: dove lo metti, sai già che farà faville. Come questa sera, chiamato a non far rimpiangere Steve Howe. Virgil Donati non ha bisogno di presentazioni, anche il suo compito non è banale, dovendo ricreare i pattern di un’altra divinità come Carl Palmer. Ma è la band nel suo complesso che funziona alla grande.
Mentre scorrono, eseguiti alla perfezione, brani immortali come ‘Only Time Will Tell’, ‘Time Again’ e ‘Wildest Dream’ potresti chiudere gli occhi e immaginare di essere tornato indietro di 40 anni. Per quanto si tratti di una operazione nostalgia, questa nuova incarnazione degli Asia riesce nell’intento di non apparire soltanto come una tribute band de-luxe, ma una formazione che partendo dal passato potrebbe prendere vita propria, iniziando a scrivere materiale nuovo, perché l’enorme talento che c’è dietro a questi quattro personaggi non può essere relegato solamente a riprodurre i fasti di un passato remoto.
Una devastante ‘Sole Survivor’ chiude il set principale, ma c’è ancora il tempo per un paio di bis, ecco quindi una spettacolare ‘Open Your Eyes’ prima che la band faccia letteralmente esplodere il Live Music Club di Trezzo con uno degli incipit più iconici e popolari della storia del rock: quello di ‘Heat Of The Moment’, che chiude questa lunghissima prima giornata di festival.
Con il sorriso sulle labbra ci avviamo verso casa. Meglio riposare un po’ perché domani si ricomincia e la giornata sarà ancora più lunga.