Ben Harper, una carriera tra ricerca e contaminazione

Ben Harper, degno profeta di un crossover culturale che affonda le radici in culture lontane

Si chiude con il cantautore statunitense la parentesi estiva all’Auditorium Parco della Musica

«Vi ringrazio per la voglia e l’affetto dimostrata in questi anni. E un ringraziamento speciale a chi è venuto ad ascoltare la mia musica per la prima volta».
In queste, parole pronunciate da Ben Harper prima del primo bis, c’è la sintesi della magia con la quale è nata e prosegue la sua carriera.

Il cantante e chitarrista originario di Pomona rappresenta da sempre la figura di artista particolare all’interno della scena internazionale, che ormai calca da oltre venti anni.
Ha sempre rifiutato le etichette che la stampa, negli anni, ha cercato di imbrigliare con paragoni spesso poco avvezzi, come quello con Lenny Kravitz a inizio carriera.

Harper si è rivelato un profondo conoscitore della musica delle roots, dal blues al soul, dal funky al jazz, capace di contaminare con il rock classico, il pop americano di fine anni Sessanta e persino l’hip hop.
E questa costruzione musicale è stata per molti anni il frutto di una ricerca elaborata soprattutto insieme ai suoi fans nella dimensione live.
La line up che lo accompagna – composta da Leon Mobley, Oliver Charles, Chris Joyner, Alex Painter e Darwin Johnson – si conferma robusta e capace di assecondarlo nelle sue evoluzioni musicali.

Durante il concerto vola l’ispirazione, con tragitti pindarici che a volte sembrano sorprendere il pubblico.
L’inizio accarezza sonorità gospel per virare subito verso il rock classico con ‘Below Sea Level‘ e ‘Burn To Shine‘, quasi a rendere omaggio a quel meraviglioso disco suonato con i Blind Boys of Alabama.
Poi inizia il vero show, che alterna le sue ultime produzioni ai suoi grandi classici come ‘Steal My Kisses‘, ‘Burn One Down‘, ‘Inland Empire‘, ‘Diamond On The Inside‘ e ‘Amen Omen‘.
Ben Harper si diverte a suonare, ne è proprio innamorato.
Così come è innamorato anche delle sue capacità, sebbene abbia imparato a non eccedere e gigioneggiarsi troppo quando si concede in virtuosismi e assoli con la sua caratteristica lap steel guitar.
C’è lo spazio e la voglia per due ritorni sul palco che pescano dall’inno classico ‘With My Own Two Hands‘ sino a ‘Shine‘ e ‘Fly One Time‘, tra l’entusiasmo sempre altissimo di un pubblico più che numeroso in una Roma bollente, accorso per l’ultima serata estiva della rassegna Roma Summer Fest all’Auditorium.
Il concerto, lungo per gli standard di oggi, termina con una band visibilmente soddisfatta di come ha suonato e di come il pubblico ha ascoltato.

Ben Harper si rivela in grande forma e con una dimensione live davvero eccellente.
Da sempre il suo punto di forza, anche superiore alle produzioni musicali in studio, il cantautore californiano è in continua ricerca del vento giusto che ne declini la giusta ispirazione.
Conosce ciò che suona alla perfezione, tanto giocare con le sue canzoni, destrutturarle e ricomporle a piacimento vestendole e spolverandole sempre a metà tra modernità e gusto classico.
Camaleontico artista, capace di oltrepassare i confini di genere e andare oltre, scrutando nella nebbia creativa.
Anche se i risultati non sempre sono all’altezza delle sue doti, la sua ricerca filologica musicale continua gli consente di salpare immediatamente verso elementi nuovi che ne illuminino il percorso creativo.
Sapere cogliere dall’esterno, fosse anche l’aria che si respira, e tradurre in musica è qualcosa che appartiene alla letteratura o al teatro: in questo Harper rappresenta davvero il tipico esempio di un crossover culturale che ha nel rock l’espressione moderna di una cultura omnicomprensiva che affonda le radici in culture lontane che si sintetizzano attraverso la musica.
E lui ne continua ad essere il degno profeta.

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