RAVENNA FESTIVAL 2024 | ANOHNI AND THE JOHNSON
Da giorni si percepiva una certa agitazione per l’attesa che ci avrebbe accompagnato sino al ritorno di ANOHNI and the Johnson. L’unica data italiana del tour europeo, dopo 11 anni di assenza dal nostro paese, è passata per il Ravenna Festival.
Ma andiamo per gradi, perché nonostante Anohni sia molto conosciuta nell’ambiente musicale, resta pur sempre un’artista di nicchia, per persone dal palato fine.
Arriviamo al Pala De Andrè in scioltezza, con l’idea di bere un caffè e fare due chiacchiere prima di entrare. Se ai cancelli d’ingresso tutto è filato liscio, senza la minima attesa o controlli per terroristi armati di bottiglietta d’acqua e biro (che spesso ti sequestrano in altre location), la fila per il bar è stata un’odissea interminabile. Così lunga e mal gestita, da preferire le chiacchiere con gli amici allo smarrirsi per una tazzina.
Si entra nel palazzetto e sì, molti credevano fosse un teatro. Invece no, un palazzetto dalle sedute laterali scomode, quelle dove anche le ginocchia di una inversamente alta (quale sono), vanno a prendersi dolori sul bordo dello schienale di fronte. E se hai la sfortuna di essere al centro di una di queste file, senza margine di movimento, prega di non aver bisogno del bagno o di non avere un attacco di panico. Diverso per le sedute in platea, con le sedie di una volta: quelle da fiera, ma almeno ben distanziate. In platea si respirava, sulle gradinate laterali no. Anohni avrebbe meritato un teatro (e noi pure).
La scenografia è molto minimal, sono tre teli bianchi da proiezione a fare da sfondo. Si spengono le luci e l’attesa assume, fin da subito, le sembianze di un’esperienza liturgica.
Sul palco, avanza con passo lento una figura enigmatica e inquietante: è un corpo femminile, tribale, con corna di cervo a coprirle il viso e avvolto da velati tessuti bianchi. È la performer Johanna Constantine. Con movimenti esaltati da un gioco di luci e ombre, l’artista statunitense mette in scena un rituale avvolto in un mistero senza tempo.
I musicisti – Julia Kent (violoncello), Maxim Moston (violino), Mazz Swift (violino), Doug Wieselman (polistrumentista), Leo Abrahams (chitarrista), Gael Rakotondrabe (pianoforte), Sam Dixon (basso), Chris Vatalaro (batteria) e Jimmy Hogarth (chitarrista/produttore) – sono già posizionati sul palco quando Anohni entra trionfale, accolta da applausi che sembrano non avere fine. Sono tutti vestiti di bianco, bianco colore della purezza, della libertà, di nuovi inizi.
Con ‘Why Am I Alive Now?’ Anohni, con la sua voce profonda e ancestrale, dà inizio ad un cammino intenso e commovente trasportando il pubblico in un viaggio interiore privato. Gli arrangiamenti orchestrali di ‘4 Degrees’ e la straziante ‘Manta Rey’ hanno contribuito ad elevare la maestosità del concerto.
Durante la serata sono stati proiettati video dal forte impatto visivo, «disturbanti» a detta di qualcuno uscendo a fine concerto. Tra questi anche un video con Marsha P. Johnson, attivista e icona transessuale trovata senza vita, con ferite alla testa, nel 1992. È proprio per omaggiare l’amica Marsha che Anonhi chiama la sua band The Johnson. Oltre al video della mamma di tutte le Drag, vengono divulgati messaggi contro le disuguaglianze e un attacco verbale diretto contro le molestie e violenze di natura sessista. Questi inframezzi non creano alcuna distrazione ma vanno ad alimentare la magia che Anohni è riuscita a creare con la sua straordinaria voce.
Le atmosfere spettrali di ‘Cut the World’ e l’emozionante ‘You Are My Sister’ rimarranno impresse nei cuori di tutti noi, mentre ‘Hope There’s Someone’ ha il compito di chiudere la cerimonia, lasciandoci immersi in un’indescrivibile magia che ha mescolato le nostre anime.
Sul finale ecco riapparire Johanna Constantine, con le corna di cervo e veli fluttuanti, ma questa volta di color nero. Nero come la parte più profonda e interiore di noi. Questo simbolismo del bianco e nero mi ha ricordato la dualità del Taiji, nel continuo scambio tra la più pura delle energie yin e yang. Un nero (yin) che non è rappresentativo della morte ma che, contenendo al suo interno un seme yang, descrive il continuo fluire della vita.
Anohni è riuscita a trascendere i confini del semplice spettacolo, accompagnandoci in un intensa ed indimenticabile esperienza spirituale.