Alan Sparhawk: dal dramma personale alla nuova vita

di Giulio Marino 4 Giugno 2025

L’artista del Minnesota torna in concerto dopo la terribile perdita di tre anni fa
La rinascita di Alan Sparhawk illumina la serata al Largo Venue
Roma, 3 Giugno 2025 | Ph. © Giulio Paravani
«Ho provato molte cose che nessuno poteva toccare, che mi hanno lasciato molto solo. Spero che Mimi possa essere la luce da cui le persone traggano forza. Se ti innamori sai che può succedere»
Mimi Parker e Alan Sparhawk non erano ancora entrati nell’adolescenza quando scelsero di unire le loro vite. poi scoprirono la musica, qualche anno dopo formarono i Low e realizzarono tredici lp in studio e due live, usciti tutti per un’etichetta che ha fatto la storia della musica: la Sub Pop. Programmavano i tour e i concerti durante le vacanze scolastiche dei loro figli. Due anni fa la morte di Mimi portò una rivoluzione nella vita di Sparhawk, quantomai evidente nel suo primo lavoro solista
«Cercavo di usare la mia voce, ma non volevo sentirla, quindi ho dovuto trovarne un’altra. Mi sentivo come se stessi pugnalando l’ignoto, cercando di capire le cose. Ho avviato le macchine, le ho manomesse […] poi ho iniziato a cantare e a volte usciva qualcosa […] su cui non potevo intervenire»
Stasera, per gli storici fan dei Low i primi quaranta minuti sono disorientanti. Quelli in cui Alan Sparhawk fa saltare il banco; in cui infila la sequenza dei pezzi estratti da “White Roses, My God”, il primo lavoro solista dopo la morte della compagna, datato settembre 2024. Alan Sparhawk sembra quasi cercare un altro sé stesso che lo accompagni fuori dal tunnel. Sfila la felpa indossata, la afferra con il braccio destro, la rotea in modo ossessivo e incessante. Non smetterà per la prima mezz’ora del concerto. Accanto a sé, al basso, il figlio Cyrus.
«Believe di Cher. Hai ragione! C’è un estasi in quella canzone che a volte provavo»
Quaranta minuti di autotune ai massimi livelli di regolazione. Voce trasformata, deformata, alterata, raddoppiata, resa irriconoscibile da harmonizer e pitch shifter. Base elettronica spinta, dance, drum machine e sequenze. Quaranta minuti che non vivo benissimo. C’è qualcosa di quasi innaturale nel modo che Alan Sparhawk ha di saltare senza mai fermarsi da un lato all’altro del palco, frenetico, disperato, stereotipato, quasi autistico. Musica intrisa di sofferenza e rabbia a esorcizzare il dolore: Mani davanti agli occhi, a mantenere private e personali emozioni di una tale intensità. Ma è necessario che sia così
«Se riesci a far sì che il tuo corpo si abbandoni, hai lasciato andare anche la tua mente […] Ballare non risolve tutto […] ma se continui a farlo ti avvicinerai molto più alla meta»
Alla fine, ti chiedi se per molti di noi liberare un altro sé stesso e dargli voce, uscire dal “noi” che eravamo prima, non sia l’unico modo a disposizione per attraversare il dolore e trovarne un senso che la ragione possa accettare. Scoprire di aver custodito per decenni un altro che non conoscevamo e sorprenderci a far cose che non avremmo mai nemmeno ipotizzato alla lontana. Divertirsi con l’autotune può essere una di queste.
E quando riprendi a giocare hai fatto il primo passo fuori dal tunnel e ritrovi quella persona che eri prima di imboccarlo. Così Alan Sparhawk recupera, in tutto o in parte, quel mondo sonoro fatto di canzoni di romantica bellezza, di spazi e rarefatti in cui lasciar galleggiare l’anima. Torna a respirare a fondo, godendo della sensazione della colonna d’aria che arriva ai polmoni e tutto purifica.
«Nel lutto si perde il senso della spiritualità e dell’universo e ci vuole tempo finché tornino […] solo negli ultimi mesi sto iniziando a credere di nuovo che ci sia una natura eterna dei nostri esseri»
Riabbracci il te stesso di prima e se ti chiami Alan Sparhawk, telefoni a un gruppo di amici musicisti e realizzi ancora un altro disco per la Sub Pop. Che magari esce il 30 maggio 2025 e che presenti stasera: “Alan Sparhawk With Trumpled by Turtles”. E i pezzi che tiri fuori da questo lavoro sono la svolta del concerto.
Pezzi incredibilmente belli nella loro pulizia e semplicità. Basso, batteria semplice ed essenziale, chitarra. Niente elettronica, niente basi, niente voci alterate, ma meravigliose armonizzazioni vocali a tre voci come nel caso di ‘Too High’ e di ‘Stranger’ in cui la calda saturazione della chitarra è avvolta dal morbido riff del basso; o come la toccante, minimale e rarefatta ballad folk di ‘Torn & In Ashes’ in cui alla batteria è sufficiente tenere i quarti sul charleston per riempire di. O magari ‘Not Broken’, costruita su una sequenza di due accordi, con un ritornello aperto e un crescendo finale di batteria che ti lascia sospeso a fluttuare nel vuoto.
Dal recente progetto Derecho Rhythm Session arriva ‘Get High’, brano etereo e cullante in cui si riaffacciano gli effetti di pitch e il delay sulla voce che creano stratificazioni orchestrali. Poi il capolavoro della serata, estratto dal repertorio dei Retribution Gospel Choir, suo progetto parallelo ai Low: ‘Poor Man’s Daughter’. Una ballad che non avrebbe sfigurato nell’unplugged dei Nirvana, che si riempie gradualmente di suono grazie a tessiture chitarristiche psichedeliche crescenti d’intensità. Lo sviluppo del pezzo sale e ti porta in mondi lontani, per poi tornare sul cantato del ritornello. Infine ‘No More Darkness’, un mantra cantato come una ninna nanna, ci porta al termine della prima parte.
«Più avanti potrebbe arrivare il momento giusto, ma sento che i Low sono ancora sacri»
Si concludeva cosi un’intervista a The Guardian della scorsa estate, della quale abbiamo riportato alcuni estratti e che trovate qui. Oggi quel momento è arrivato. L’abbraccio degli amici con i quali da sempre ha fatto musica e con i suoni di sempre hanno riallacciato i fili che lo connettono con il suo passato. Nel bis, tornano i Low. ‘Walk Into the Sea’ e ‘Days Like These’. Brani che reggono meravigliosamente anche con la sola chitarra e voce. Grandi melodie; suoni che nascono da un’anima nobilitata dal dolore. Canzoni e performance, quelle di Alan Sparhawk, da far ascoltare un po’ di cantautrici e cantautori delle nostre parti. Non si tratta solo di imparare a scrivere o a suonare; ma anche a soffrire. E si fa sempre in tempo