Savana Funk, il ponte sonoro tra Africa ed Europa

I Savana Funk sul palco del Monk Club di Roma

Una serata dai ritmi caldi come il vento del deserto

Scena 1 – 14 maggio 2022, Roma; Esterno sera.
Invito la mia amica S. a un concerto.
È titubante, mi chiede chi sarà ad esibirsi.
Le rispondo di fidarsi, che arrivati alla mia età si impara a non assumersi rischi inutili come quello di invitare una donna a un brutto concerto.
Sorride e accetta.
Inizia il live, nemmeno dieci minuti e la vedo ballare come una pazza.
A fine concerto mi ringrazia, gratificando quel che resta della mia autostima.

Scena 2 –fine estate; esterno giorno in una località del litorale laziale, nota per il suo castello del Trecento a pochi metri dal mare.
Ho indosso una maglia di una band bolognese.
Meno di un minuto e la maglietta è notata e festeggiata da un amico della band stessa.
Seguono presentazioni, chiacchiere a tema musicale, diverse foto inviate seduta stante alla band stessa e la nascita di un’amicizia.

Questo per dire che negli ultimi sei mesi, i Savana Funk hanno contribuito in buona misura a far aumentare la considerazione presso l’universo femminile e incentivare la mia vita sociale.
A pensarci bene non poteva che essere così.
Se facessi il gioco delle libere associazioni, pensare alla musica della band di Aldo Betto (chitarra elettrica), Blake Cory Sawyer Franchetto (basso elettrico) e Youssef Ait Bouzza (batteria), richiamerebbe come prime parole “incontro”, “fusione”, “scambio”, “festa”, “dono”.
Quando la band bolognese sale in scena, tali concetti di inclusività assumono concreta forma sonora e diventano vibrazione circolante che si riverbera e amplifica come un grande effetto Larsen tra musicisti e pubblico.
Ed è naturale diventare musica ed entrare in simbiosi con i musicisti stessi.
Svanisce istantaneamente la linea invisibile di demarcazione tra il palco e platea, con musicisti e spettatori che si nutrono delle stesse emozioni.
Il concerto diviene un’esperienza totalizzante, una trance ipnotica che avvolge e coinvolge menti che si aprono alle contaminazioni della band, e corpi che si lasciano andare in danze liberatorie.

E parlando di contaminazioni, non poteva che essere il Mediterraneo il filo conduttore di “Ghibli”, la loro ultima fatica, uscita ad ottobre 2022, che la band presenta in questa serata romana.
Composto durante il secondo, lungo, inverno pandemico, tra l’alternarsi di zone gialle, arancioni, rosse, l’album è la rivelazione dello sguardo dei Savana Funk su quello che accade nel bacino del ponte tra Africa ed Europa, attenti a cogliere ciò che il vento che soffia dal Sahara trasporta verso le coste del Vecchio Continente.
È un disco pensato, composto e registrato in trio, e per questo, la band sale sul palco nella più classica delle formazioni: batteria, basso e chitarra elettrica, diversamente da quanto accaduto cinque mesi fa, con la presenza del loro tastierista, Nicola Peruch.

Savana Funk

La prima parte è dedicata al nuovo lavoro.
Il suono è potente, compatto, essenziale.
Aprono con ‘Agadir‘,planata velocissima e radente sulla catena dell’Atlante, in cui attacchi da stratocaster hendrixiani si fondono con suggestioni andaluse.
Si prosegue con ‘Elephant‘, primo sincolo estratto, in cui melodie afro/mediterranee sono sostenute da una ritmica funky tiratissima e senza respiro.
Si passa per la preghiera alla vita di ‘Ayat‘ e si arriva alle atmosfere sospese e intimiste di ‘Ifri‘. Ascolto i suoni della chitarra e non so come mai, mi viene in mente Roberto Ciotti.
Do la colpa al mio romanocentrismo, ma durerà poco, perché tempo mezz’ora e sarà proprio Aldo Betto a ricordare il bluesman romano.
Un salto nel recente nel passato con ‘Fuga da Gorée‘ e la sua intro jazzy, per poi partire, martellante cavalcata con batteria tribale e percussiva pompata da un basso stile Red Hot Chili Peppers.
Tindouf‘, è il momento più mistico dell’intero concerto.
Chiudo gli occhi e sono proiettato nel mezzo di una cerimonia berbera nel deserto al confine tra Algeria e Marocco, là dove è la città di Tindouf, con i suoi campi profughi e le temperature che possono passare dai cinquanta gradi di giorno, ai cinque sottozero di notte.
È una preghiera al sole, il Maghreb, che incontra Napoli.
Il suono che diventa vapore, colorato con sfumature di un tramonto sul deserto.

Ed è di nuovo “Ghibli”, con ‘Boubacar‘; la simbiosi tra Aldo e Blake, uno davanti all’altro, uno con la sua Strato Sunburst e l’altro con il suo Precision Bass.
Segue ‘Lipari‘ e poi ‘Ghanaba‘, con l’omaggio della band a Guy Warren, pietra miliare dell’Afro-Jazz, e Youssef che si scatena con un solo di batteria come ormai non se ne vedono più.
Si dilatano nuovamente spazi e tempi con la title track ‘Ghibli‘ prima dell’esplosione afro-latina pirotecnica di ‘Madagascar‘, con basso e batteria impazziti.
Si chiude la prima parte con i suoni e le atmosfere psichedeliche di ‘Ganimede‘ sostenuti da un treno continuo e ostinato di basso e batteria e con ‘Zahra‘, tratto da “Bring in the New” che nasce con uno zampillo di ritmi africani, ma va a sfociare in un maledetto blues, nudo, crudo, ruvido.

E mentre tutto questo accade, Aldo, Blake e Youssef sono una sola entità.
La vibrazione e l’empatia che mi dilata i confini dell’Io e fanno sì che mi senta accanto a loro, a suonare.
Le loro espressioni comunicano quanto stiano bene e amino suonare per le persone e quanto ricevano da queste in termini di energia.
Il pubblico, preda di un’estasi collettiva, e avvolto in un abbraccio ideale con i musicisti, si abbandona libero e sfrenato alla danza.
Un concerto dei Savana Funk restituisce il più profondo senso di fare e ascoltare musica.
Penso che la continua e costante crescita di riscontro della band sia conferma che trasparenza, passione, sincerità e generosità siano ingredienti fondanti della qualità di qualsiasi forma artistica.

Hanno voglia di suonare i ragazzi e non si fanno pregare.
Pochi istanti e sono di nuovo sul palco. con il brano che ha dato il nome alla band.
Segue ‘Ain’t it Funky Now‘, doveroso omaggio a James Brown, per un live che non finisce mai.
Si ha ha la sensazione che, se potessero, suonerebbero tutta la notte.
La fine di un’improvvisazione diventa l’inizio della successiva e si arriva così a ‘Old School Joint‘, al termine del quale sono loro a far cantare noi e a chiamare le testimonianze d’amore per ciascuno di loro.
Amore: ecco, cosa resta alla fine.
Amore è tutto ciò che rimane.
Come quando vai al Sud.

Photo Gallery Savana Funk

Roma, 24/11/2022
© Claudio Enea / ONR

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