PEOPLE#3: Amedeo Lombardi

Dominare la leva imprenditoriale in un settore emotivo come quello artistico, non è semplice: la logica della catena di montaggio è dietro l’angolo e rischia spesso di farci vivere l’arte in modo disilluso. Non è una novità che molti musicisti, finiscano a preconfezionare emozioni per un pubblico già istruito a comprarle.

Chi di voi non si è mai sentito dire che ‘di arte non si vive’?
Bene, la buona notizia è che se ci avete creduto non è colpa vostra ma potete sempre cambiare idea.
È anche per questo che oggi vi racconto una storia diversa.

«Quando mi chiedono: “che lavoro fai?”
io rispondo “organizzo concerti”
“Ok, e di lavoro?”
“vendo birra e panini”»

Amedeo Lombardi è un ragazzo singolare.
È educato, cordiale, attento a ciò che gli succede intorno ma con lo sguardo vigile ed ermetico di chi sa quello che vuole e come ottenerlo.
Di come la sua capacità imprenditoriale abbia saputo valorizzare la musica ne potete leggere ampliamente nelle righe che seguono.
Io mi limito a dirvi che è un ragazzo con la musica nei pensieri e il sorriso negli occhi, caratteristiche forse comuni a molti di voi lettori.
L’ideatore del brand ‘Home’, va oltre l’idea di concerto e ci parla dell’arte come un incontro multisensoriale, un dono da custodire e tramandare alle generazioni future.
Noi di Oca Nera Rock lo accogliamo con gusto e poiché non recensiamo prodotti, ma raccontiamo esperienze, direi che possiamo premere play: Amedeo ci parla di sé.

‘Home’ è una parola che, nel tuo caso, racchiude diverse realtà. Vuoi raccontarcele?

La parola ‘Home’ parte dal concetto di casa, quello che dovrebbe essere un luogo di ritrovo, un luogo accogliente, che protegge, che stimola la crescita e i sogni.
Nel caso specifico, per me ‘Home’ nasce come locale, una sorta di bar americano che ho proposto in Italia dopo aver vissuto un’esperienza a New York. Voleva essere una ‘casa’, un’appendice di me stesso, un’amplificazione di tutte le cose che mi piacciono. Tra le passioni spicca la musica, che nel tempo ha dato vita ad Home Festival. Da ultima, è nata un’agenzia di intrattenimento che offre a multinazionali e privati una serie di servizi, come l’organizzazione di sicurezza, booking, etc. Più che un desiderio, l’agenzia è stata un’esigenza, Home è diventato una case history, veniamo visti come dei precursori e in molti ci chiedono dei consigli.

Per cosa si distingue il brand ‘Home’?

Non siamo perfetti ma siamo veri. Non ci sono bugie dentro ‘Home’, o ti piace o non ti piace, con tutti i difetti del caso. Questo credo sia uno dei valori del brand, è un prendere o lasciare.

Home‘ sembra avere il messaggio intrinseco di un brand che non solo vuole essere realtà, ma che vuole cambiarla. È così? Se sì, qual è il cambiamento che insegui?

‘Home’ è nato dalla volontà e dal coraggio di cambiare. Noi vogliamo cambiare il modo di consumare l’esperienza musicale e ci proviamo, per esempio, inventandoci formule e soluzioni per far suonare dai Subsonica ai Negrita, senza far pagare nulla al pubblico. A costo di sembrare presuntuoso, dico che siamo stati pionieri nell’organizzazione, ma veri e propri mecenati nel credere fermamente in alcuni artisti esordienti, come è successo quattro anni fa con Salmo.
Fino a poco tempo fa, ciò che in Italia intendevamo come festival, in realtà era solo l’evoluzione di una sagra. Non si pensava a tutti i servizi che ruotano attorno al palco, dai parcheggi ai collegamenti. Ormai il pubblico non ha timore di viaggiare per vedere un concerto, vuol dire che entriamo in competizione non solo con le altre proposte italiane, ma con quelle di tutta l’Europa. Ci abbiamo messo forse più tempo del dovuto, ma siamo partiti come inesperti e oggi ritroviamo Home Festival alle finali di un contest internazionale.

Il tuo business, quindi, ruota intorno alla parola “casa”. Quale luogo per te è “casa”?

È il modo in cui ti poni nei confronti della casa, che fa cambiare la scenografia. È il modo in cui vivi la scenografia che la rende tale. Per me ‘casa’ è composta da diversi luoghi.
Come luogo dell’anima c’è sicuramente la casa in cui sono nato. Ti parlo di un paese nel pieno sud Italia, che mi ha dato tanto, anche se vivere lì rendeva tutto più difficile. Per comprare i primi dischi, per fare sport, dovevo ogni volta percorrere trenta chilometri. Ho visto la povertà in molte case, ma anche tanto socialismo, comunità, lavoro di squadra e… amore.
La seconda è New York. Tra tutte le città che ho visitato, è quella a cui ho lasciato un pezzo di cuore. È una città enorme, eppure, riuscire a creare il tuo equilibrio lì è semplice! qualsiasi passione o interesse tu abbia, di sicuro c’è qualcun altro in città con cui condividerlo. È come un paesino amplificato.
Poi c’è Treviso, dove ho trovato casa. Qui ha radicato il seme della mia follia, del mio coraggio. Non so cosa sarebbe successo se avessi tentato questa avventura in un altro posto.
C’è anche un paesino in provincia di Siena, che mi fa sentire ‘adottato’. A parte le rughe delle persone, lì il tempo si è fermato: i cellulari non prendono, la tecnologia è poca e tutto questo dà un senso di protezione. È un buon luogo di ritiro, quando ho bisogno di stare tranquillo vado lì.
Sono posti distanti e diversi, ma interconnessi tra loro. Ognuno a modo suo ti coccola, ti abbraccia, dà un messaggio di accoglienza. Non potrei vivere dove una persona è solo ‘uno dei tanti’.

So che sei stato anche docente. Vuoi parlarcene?

È quello che mi piacerebbe fare per il resto della vita. Nelle docenze, fondamentalmente mi chiedono di raccontare la mia esperienza. Mi preparo sempre delle slide tecniche, ma poi arrivo li e mi ritrovo davanti ragazzi giovani, con la fiamma che arde, ragazzi che vorrebbero fare il mio stesso lavoro e pensano ‘ma come mai tu ce l’hai fatta?’. A quel punto, metto via i numeri e la tecnica perché si può sempre imparare e provo a stimolarli, infondendo in loro fiducia e alimentando la loro passione, dirgli ‘anche tu ce la puoi fare!’. Provando a fare capire che la musica è innanzitutto arte e di conseguenza provo a toccare le corde emotive che sono quelle che tengono viva la passione se questa dovesse diventare lavoro.

People #3 - Amedeo Lombardi

Nella definizione della line up di Home Festival e nelle proposte di Home Rock Bar, c’è sempre un preciso equilibrio tra il panorama emergente, l’underground e i nomi conosciuti dal grande pubblico. Qual è la regola vincente?

In primis, tutti noi che lavoriamo all’Home, siamo ascoltatori o meglio divoratori di musica. A prescindere dai gusti, ognuno ha una sensibilità da ascoltatore. C’è prima la passione, poi c’è la professionalità. C’è da dire che abbiamo dei costi da sostenere e siamo costretti a fare prima attente analisi per capire cosa può o non può funzionare. Alcune operazioni sono necessariamente più commerciali, provi a vestirle, ma di fondo servono a far quadrare i conti, a permettere poi agli emergenti di esibirsi.

Quale pubblico vuoi raggiungere?

Premetto che, io guardo sempre il pubblico: è quello che ti fa capire come sta andando il concerto. Mi piace raggiungere un target giovane i cosiddetti ‘millenials’ . Si deve pensare alla foresta che cresce, piuttosto che all’albero che cade, quindi sosstengo di educare i ragazzi sin da piccoli, alimentare la loro passione. Mi piace poi il pubblico che non si lamenta, che ha la massima fiducia nel nostro lavoro, ma si fa fatica a superare il concetto di fans e di chiusura verso le “proposte” diverse da quello che uno è abituato a sentire.

L’Italia è un paese pieno d’arte, ma sembra approcciarsi alla musica in modo poco strutturato rispetto al resto d’Europa. Secondo te, perché è importante puntare sulla musica e in che modo dovremmo farlo?

L’Italia è quel paese in cui il lavoro da artista non viene concepito, in cui la musica non è lavoro,  in cui figure tecniche altamente professionali non vengono contemplate o prese in esame. Basti pensare che per la costruzione di uno spettacolo, per il montaggio di un palco, siamo tenuti a rispettare le leggi dell’edilizia.
Il problema è a monte. In questo momento siamo nel pieno medioevo dal punto di vista culturale e abbiamo bisogno di tornare a credere e convincerci che di arte si può vivere. Gli istituti scolastici dovrebbero insegnare a riconoscere e rispettare l’arte, ovvero, che tu voglia diventare artista o meno, sei tenuto a rispettare le “opere” e chi o coloro l’hanno pensate e realizzate . Lo Stato dovrebbe stimolare e tutelare la creatività e la professionalità che ruota intorno a questa, ma soprattutto educare. Uno dei più grossi crimini del mondo è per me la deturpazione dell’arte, qualsiasi essa sia. Negli ultimi vent’anni, invece, abbiamo abbandonato le nostre città al degrado, non ci curiamo più dell’arte se non per fini commerciali.

Abbiamo parlato ampliamente di ieri e di oggi. Cos’è che invece manca?

Manca tantissimo. Potrei farti un elenco di mille difetti, ma voglio vederli come miglioramenti. Stiamo lavorando a un cast di respiro sempre più internazionale e sempre più di qualità. Ricerchiamo artisti che normalmente sono difficili da raggiungere, dall’headliner all’emergente.
Dal punto di vista pratico, molto c’è da fare sul festival: puntiamo ad ampliare le proposte extra concerto, offrire un’esperienza sempre più completa. Sarebbe un grande vantaggio avere delle strutture stabili, magari anche realizzando esposizioni permanenti nei 3-4 mesi precedenti. Vorrei, fornire maggiori occasioni di approfondimento sulle tematiche di risvolto sociale, ovviamente non intendo imporre alcuna linea di pensiero, è importante che il pubblico scelga liberamente di informarsi e confrontarsi.

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