About Wayne – Bagarre

Ascoltando per la prima volta Bagarre degli About Wayne, l’aggettivo a cui subito mi ha fatto pensare è “onesto”.
Onesto, all’opposto di pretenzioso e artificioso: non perché sia poco curato o perché io conosca band disoneste che ti truffano e ti rubano il portafogli, ma perché sembra vogliano dirti che quelli sono loro, a loro piace fare quel tipo di musica e non hanno certo intenzione di ricorrere a stratagemmi e idee costruite a tavolino per risultare accattivanti o darsi un tono di ricercatezza e originalità, o darsi un tono e basta.

Facendolo girare un altro po’ di volte, a volumi sostenuti, l’impressione che trasmette l’album è ben più articolata. Effettivamente la prima parte, i primi quattro o cinque brani rimandano a un rock classico, agli anni ’90 e all’alternative diventato popolare e iconico, con un piglio leggero e velatamente melodico che viene buono per andare in heavy rotation su una radio rock commerciale.
Flow‘ alleggerisce un po’ il carico, con quel giro ammiccante da indie rock di inizio millennio, tutto il resto si muove invece nella stessa direzione, dal brano scelto come singolo di apertura ‘Where no one goes‘ passando dalla più oscura e cavernosa ‘Circus‘ fino a ‘The chase‘, con un apprezzabile contributo elettronico in sottofondo che si fa sentire più che notare e con un timbro di voce rivolto al basso, che sale solo per marcare il refrain.

Riverside‘ segna il distacco, la voce riverberata e gli strumenti maneggiati con cura e cautela restituiscono un suono più da songwriter, e non dico cantautorale perché sarebbe depistante. Finisce come un trampolino per ‘Son of a man‘, il brano più incisivo dell’intero disco, in cui la voce viaggia in alto senza paura e non disdegna di sporcarsi e graffiare, come pure il suono che abbandona la pulizia cupa per qualcosa di più aggressivo.
Da qui in poi l’album rallenta: si rimbocca le maniche e lavora di chitarre, appare più ispirato che pensato, anche se il taglio dei brani risulta più sofferente e meditativo. Volendo leggere dei riferimenti, si aprono link ai Tool nei passaggi sospesi e ansiogeni, alla voce di Chris Cornell quando i pezzi si aprono e ci si straccia le vesti, con un piede nel Novanta-e-rotti ma con un incedere ancora attuale e non troppo passatista. I testi piuttosto articolati e i lunghi periodi si scompongono in pochi concetti espressi per immagini, frammentari e diretti, e la struttura musicale che prima appare di supporto al cantato e alle parole diventa protagonista, rafforzata da una sequenza di aggettivi usati come inquiete invocazioni. ‘Guilty, Tirant, Lunatic, Torturer‘, una tormentata litania senza necessità di predicato, e di simili passaggi se ne trovano un po’ ovunque.
Si picchiano un poco gli strumenti con ‘Tony Flash‘, per smorzare pian piano i toni fino alla chiusura ufficiale di ‘Charger 69‘, e l’acustico con voce nuovamente riverberata e un sapore blues della ghost track ‘Prayer#N‘.

Il disco è ben più multiforme di come inizialmente dia a pensare, se l’inizio è volutamente freddo, il prosieguo è graffiante e la chiusura appare anticipata, come se ci fosse ancora qualcosa da dire. La curiosità di capire se vogliano prendere una direzione precisa tra le diverse anime messe in mostra, ce la dovremo tenere probabilmente fino al terzo album.

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Matteo Ferrari

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Nato nel 1984 nell'allora Regno Lombardo-Veneto. Un onesto intelletto prestato all'industria metalmeccanica, mentre la presunta ispirazione trova sfogo nelle canzonette d'Albione, nelle distorsioni, nei bassi ingombranti e nel running incostante.

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