The Bastard Sons Of Dioniso – Cambogia

Capita sempre meno spesso di comprare dischi senza conoscerne l’autore, fidandosi semplicemente del titolo o del nome della band.
È successo anche a me, ad esempio, quando vidi per la prima volta nei negozi l’omonimo disco dei Them Crooked Vultures: fui rapito dal loro nome e dalla grafica di copertina.

Quella sensazione si è ripresentata ora con “Cambogia” dei The Bastard Sons Of Dioniso: il nome unitamente alla copertina, cruda e ruvida, ha subito destato il mio interesse.
Prima di ascoltarlo ho fantasticato pensando a un disco di stoner rock e psichedelia.
Ora, so che i The Bastard Sons Of Dioniso sono una band italianissima ma so anche che picchiano non solo forte ma soprattutto bene – intendiamoci, oggi abbiamo la possibilità di ascoltare centinaia di band che suonano egregiamente ma davvero poche invece lo fanno in modo decisamente professionale.
“Cambogia” è uscito a fine 2017 ed è la loro ultima prova in studio.
I The Bastard Sons Of Dioniso non sono una band che nel proprio percorso ha fatto tutto e il contrario di tutto musicalmente parlando: ripercorrendo il loro percorso a ritroso mi rendo conto che negli anni il loro groove è cresciuto, si è affinato nel suono e nella tecnica, rendendoli oggi una band completa.

“Cambogia” come avevo già percepito dalla copertina è una bandiera rock sferzata da folate stoner, hard rock, punk, e rock’n’roll.
Federico Sassudelli, vero motore della band, impone dietro la batteria un groove positivo e ruvido amalgamato con preziosi cambi di tempo, dal pezzo iniziale ‘Cambogia’ fino a ‘Benvenuti nel mio mondo’, ultimo pezzo di questo lavoro brillante.
Energico e ben arrangiato, “Cambogia” mi rivela in ‘Non farsi domande’, ‘La seconda neve’ e ‘Il falegname’ le sue venature stoner e hard rock, le tinte che ho apprezzato di più.
Positivi e pungenti i riif in ‘Lasciamo stare i convenevoli’, ‘Coast to Coast’ e ‘Sei solo tu’.
L’unica ballatona, acustica per l’occasione, inserita nel disco è ‘Venti tornanti’: funge da displuvio e diviene l’unico pezzo contenuto in “Cambogia” in cui le strutture strumentali ben si sposano con il testo, la voce e i cori.
Nel resto dei pezzi infatti il comun denominatore resta l’incertezza vocale, espressiva e testuale abbinate a l’eccessiva presenza di cori e raddoppi vocali.

Per un disco potente, importante e ben suonato come “Cambogia”, ci si aspetterebbe un cantato molto più ruvido, deciso e impegnato, molto più “bastard” verrebbe da dire, meno sdolcinato e intriso di cori mielosi, quasi Antoniani a tratti.
Un cantato pop su un disco così prepotentemente rock un po’ stona.

“Cambogia” avrebbe meritato anche testi un po’ più incisivi, diretti, sfrontati e di spessore, meno ermetici e più vicini a Dioniso.
Estasi, liberazione dei sensi, delirio mistico e mille altre sfaccettature dionisiache avrebbero reso “Cambogia” nel complesso un sacello scintillante targato The Bastard Sons Of Dioniso.

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