Fell Runner – Fell Runner

Nel 2012 quattro giovani musicisti incrociano le proprie strade nella prestigiosa CalArts (California Institute of the Arts) seguendo i programmi musicali di jazz e musica africana e mettendo a frutto i loro talenti ed istinti musicali, sia individualmente che come quartetto. Steven Van Betten (chitarra e voce), Gregory Uhlmann (chitarra e voce), Patrick Kelly (basso) e Tim Carr (batteria e voce) crescono quindi in un ambiente di grande creatività e libertà espressiva formando i Fell Runner.
Il loro album di esordio è arrivato come un lampo proprio mentre stavo compilando la classifica del 2015, sconvolgendola.
Le note di coperina sono affidate a Jeff Parker, chitarrista di estrazione jazz e membro di TortoiseChicago Underground, Isotope 217º e molti altri gruppi, che si sbilancia così: «La loro musica è unica. Frastagliata ma allo stesso tempo profonda e melodica. un’evidente influenza dell’africa occidentale affiora in molte delle costruzioni chitarristiche, ma io noto anche frammenti di suono che richiamano alla mente Ian Williams & Co. a Pittsburgh con i Don Caballero, a Chicago con gli Storm & Stress e infine a Brooklyn con i Battles. Ci sono momenti di astratta complessità armonica (‘Cobwebs‘) e bellezza (‘Fall Back‘) che li rendono insuperabili, alle mie orecchie, da tutte le altre band al giorno d’oggi».
Una presentazione che lascia stupefatti, visto che si tratta di una band all’esordio, a tal punto che ci si chiede: l’ascolto dell’album riflette davvero quanto affermato da un grande ed esperto musicista come Parker?

Andiamo con ordine.
Il disco (uscito nella sola versione in CD per la piccola etichetta Orenda Records e acquistabile esclusivamente online qui) si apre con ‘Song Of The Sun‘, una canzone apparentemente semplice e melodica, ma che, ad un ascolto più attento, riflette l’abilità del quartetto e spezzare il ritmo per poi ricomporlo, mentre le frasi chitarristiche sono arabeschi nervosi e frammentati di grande effetto.
La complessità ritmica e compositiva di questo e di molti altri brani, fanno effettivamente ricordare, in maniera semplificata ed smussata, quanto fatto dal 1997 al 2000 dagli Storm&Stress.
La successiva ‘60 Seconds‘ è più intimista e mostra anche qui (costante del modus operandi della band) le ormai consuete frasi chitarristiche spezzate, un attento e variegato uso delle percussioni e le voci di 3 dei 4 componenti del gruppo che si rincorrono e si sovrappongono sullo sfondo fino a ispirare un commovente finale quasi gospel.
Better Isn’t Always Better‘ ci ricorda, oltre a colpire per le splendide ritmiche africane, qualcosa del variegato percorso Frippiano agli inizi degli anni ’80, tra il ritorno del Re Cremisi e le registrazioni di “Remain In Light” dei Talking Heads.
CA-14‘ è una ballata quasi tradizionale con gli strumenti che vengono quasi accarezzati fino ad un’esplosione finale estremamente emozionale. Ritmiche tribali prendono per mano ‘Badada‘ e la conducono dalle parti dei Battles con sullo sfondo i Wilco della svolta firmata Jim O’Rourke di “Yankee Hotel Foxtrot”, per il suo essere allo stesso tempo tanto lineare quanto magicamente sghemba.
Cobwebs‘ mostra una marcata ispirazione jazz che non ha certo lasciato indifferente Jeff Parker, tanto da citarla espressamente nelle “liner notes” per la sua splendida complessità armonica, mentre le voci si inseguono emotivamente cercando di dimenticare un passato doloroso – «To Undo The Memory / Keep Trying».
Rain Room‘ è un brano complesso, frastagliato e risoluto, che ci riporta di nuovo ai duelli chitarristici tra Fripp e Belew. Nell’imperioso finale poi, a salire sugli scudi è la batteria di Tim Carr con una dirompente mitragliata finale. Il gran finale è affidato alla dolce e splendida ballata di ‘Fall Back‘, che ci lascia tra arpeggi e cori che solo in paradiso: «Because I Was Afraid / To Fall Back Into Arms That I Had Fallen Into Before / Oh But Fate Or A Higher Spirit Let Me Know / That I’d Be Safe And Not To Be Afraid Anymore».

«E adesso? Già finito?», verrebbe da dire.
Ebbene sì, perché l’album dura poco più di mezz’ora, ma dopo averlo ascoltato e riascoltato per assaporarne ogni angolo e rifinitura, viene effettivamente il dubbio che Jeff Parker avesse davvero ragione da vendere nell’asserire che attualmente nessun gruppo suona come loro.

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