Chris Forsyth & The Solar Motel Band – The Rarity of Experience


Avete presente i Peeesseye?
Quel trio di pazzi furibondi che amavano celebrare arditi baccanali dedicati all’improvvisazione e all’avant-rock?
Per il momento potete dimenticarli, perché il chitarrista del fantasioso trio, Chris Forsyth, ha intrapreso un percorso estetico diametralmente opposto.
Il suo “Solar Motel” del 2013 è stata la scintilla che gli ha fatto venire l’idea di creare una vera band, chiamata proprio The Solar Motel Band, con cui poter definitivamente accantonare le asprezze del suo precedente progetto e approdare ad un suono che bilancia l’amore per il suono chitarristico trascendente degli anni ’70 con la sperimentazione dei giorni nostri.
Per questo nuovo “The Rarity of Experience“, Forsyth ha chiamato a raccolta lo stesso gruppo di musicisti del precedente “Intensity Ghost”: il bassista Peter Kerlin, il batterista Steven Urgo e Shawn Edward Hansen (synth Prophet 6), con la sola eccezione di Nick Millevoi che prende il posto di Paul Sukeena alla seconda chitarra.
Ad affiancare i cinque, per dare profondità alle canzoni, sono arrivati Jaime Fennelly (synth Oberheim SEMs e Harmonium), Ryan Sawyer (percussioni) e Daniel Carter (tromba e sax tenore).
Le tracce che compongono questo lungo doppio album sono state curiosamente concepite in versione acustica, dovevano infatti accompagnare una pièce teatrale di Miguel Gutierrez, e solo successivamente (tra dicembre 2014 e ottobre 2015) sviluppate e registrate nella versione definitiva.
Il canovaccio è praticamente lo stesso dell’album precedente, una ritmica solida sulla quale le chitarre si sfidano, duellano e costruiscono le loro lunghe traiettorie, spesso lineari e parallele, talvolta oblique e divergenti. Il disco è diviso idealmente in due parti, così come ‘Anthem‘ , primo brano in scaletta, lento all’inizio ma via via più aggressivo, riuscendo ad insinuarsi sotto pelle, come una jam session ben congegnata che non può non ricordare le modalità di costruzione sonora dei Grateful Dead o dei Quicksilver Messenger Service. Più in generale, il suono si rifà alle band del passato che hanno fatto dello scontro tra chitarre in alta quota, o in un polveroso deserto, il proprio inequivocabile marchio di fabbrica. Non aspettatevi però virtuosismi chitarristici, la psichedelia liquida del musicista di Philadelphia non contempla (fortunatamente) questo aspetto, andando a privilegiare la bontà del suono, l’elevazione dell’elegia, gli stimoli cerebrali. Le due parti della title track scoprono subito una novità nella voce dello stesso Forsyth, che rende il brano ancora più simile ai Television di “Marquee Moon”.
Non bastassero le modalità di start & stop delle chitarre di Forsyth e Millevoi che duellano e flirtano, ascoltate l’inizio della seconda parte e ditemi se non vi ricorda almeno un po’ il duetto tra Verlaine e Lloyd all’inizio di ‘Elevation‘.
I 10 minuti in ripetitivo crescendo di ‘High Castle Rock‘ non sono altro che un maestoso monumento allo strumento principe del rock che viene portato in trionfo da una ritmica sostenuta su centinaia di chilometri di strade blu, mentre la ‘Harmonius Dance‘ che chiude le prime due facciate è più meditativa e liquida, ed incanta per i delicati incastri e per gli intermezzi che ricordano, senza l’uso del vibrafono, gli Aloha più creativi.
La band lavora per addizione, creando un graduale crescendo di suoni e volumi per raggiungere un picco emozionale. L’abilità strumentale viene sempre messa al servizio del suono, mentre la capacità di improvvisare e vagare tra le note li rende diversi dalle altre band strumentali guitar-oriented.

Se il primo disco colpisce per impatto sonoro, il secondo mostra umori diversi.
L’iniziale ‘The First Ten Minutes Of Cocksucker Blues‘ rallenta i ritmi, passando da un caldo scenario desertico ad uno reso intrigante dalla sola luce lunare, con le percussioni di Ryan Sawyer ad irrobustire la ritmica facendola diventare soul-blues.
Dopo 5 minuti ecco la tromba di Daniel Carter a trasfigurare il tutto come fosse una forma slowcore e oppiacea della Budos Band o una versione modernizzata al rallentatore dei Rolling Stones, fino ad un prolungato finale che vorremmo non finisse mai.
Ma è solo l’inizio, perché c’è spazio per il blues stellare ed etereo della liquida ‘Boston Street Lullaby‘, dove i suoni sembrano galleggiare in un universo di pura magia, per poi disgregarsi in una miriade di microparticelle di synth e tromba.
Old Phase‘ dopo i primi minuti contemplativi, si sviluppa spostando la traiettoria sonora su svariati intrecci di chitarra, innescati da una ritmica urgente che provvede a svariate ripartenze, riuscendo così ad innalzare la tensione emotiva. Il gran finale è dedicato ad una cover di Richard Thompson, una splendida versione di ‘The Calvary Cross‘, con il testo recitato da Forsyth, mentre le due chitarre si perdono e si ritrovano in un lungo delirante ed emozionante assolo, riuscendo a far convivere grazia e follia, tradizione e sperimentazione.
Un lavoro splendido, dove coesistono perfettamente entrambe le anime del chitarrista, quella classica e quella rivoluzionaria.
Il risultato è un piatto estremamente gradevole perfino per i palati più fini, anche se personalmente avrei gradito un tocco di imprevedibilità qua e là, sotto forma di una di una di quelle schegge di follia ed eccesso che animavano i Peeesseye.
Ma anche così, con il primo album più fisico e di attacco, ed il secondo più stimolante e cerebrale, il risultato finale ci lascia estremamente soddisfatti. La perfezione sarà per la prossima volta.

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