Micah P. Hinson live a Roma: solitudine, peccato e redenzione

Ormai l’Italia è (fortunatamente) tappa fissa per i tour di Micah P. Hinson, folksinger nato a Memphis ma texano d’adozione, una delle voci più interessanti del songwriting americano.
Le sue liriche autobiografiche, sarcastiche e profonde, si sposano perfettamente con la sua visione cinematica e il suo modo dolcemente violento di interpretare la tradizione americana.
A sancire ancora di più il legame tra Micah e l’Italia, è arrivato lo scorso anno un 12″ intitolato “Broken Arrow” e pubblicato dall’etichetta Bronson comprendente nove tracce scritte insieme al suo amico e collaboratore di vecchia data Nick Phelps – disco naturalmente in evidenza sul banco del merchandising del Monk, il locale che lo ospita in questa tiepida serata primaverile romana (13 aprile).

Le strade polverose di un’esistenza difficile e tormentata, hanno consumato i tacchi degli stivali di questo ragazzo texano, strade che hanno visto la solitudine, il peccato e la redenzione, strade che hanno ascoltato melodie sognanti, una chitarra cristallina, una voce che si innalza verso il cielo implorando ascolto e chiedendo una cura per le ferite aperte.
Durante il tour di Micah P. Hinson And The “Pioneer Saboteurs” percorrendo le strade spagnole intorno a Barcellona, il van che lo ospita ha un brutto incidente, si ribalta, il songwriter rimane intrappolato, le sue braccia non riescono più a muoversi. L’ennesima disavventura in una vita tanto piena di avvenimenti da riempirci un libro intero. Micah teme per la sua carriera, non sa se potrà avere di nuovo una vita normale, se potrà mai completare quel disco rimasto a metà. La riabilitazione sarà lunga, porterà una nuova consapevolezza di sé, e gli lascerà in eredità quel bastone che lo accompagna e con cui lo vedo dialogare amabilmente con il bassista che sarà di lì a poco con lui on stage nell’accogliente cortile del locale romano.
Dopo una mezz’oretta in cui il chitarrista romano Dola ha presentato in solitaria alcuni pezzi del suo imminente album “The Drug Years”, e il quarto d’ora accedemico seguente, alle 22:45 ecco Micah salire sul palco insieme ai suoi due compagni d’avventura, una solida sezione ritmica tutta italiana con cui il texano ha provato la setlist per soli 4 giorni.
«Oggi suonerò ad un volume un po’ più alto del solito» annuncia divertito davanti al suo microfono anni ’50 prima di piazzare l’intro di ‘How Are You Just A Dream?‘, sferragliante brano che apriva anche “Micah P. Hinson And The Nothing”, l’album registrato dopo la riabilitazione proprio a Santander, in Spagna, per l’etichetta francese Talitres.
Un brano in cui Micah flirta a modo suo con il fuoco, e dove ha fatto confluire tutta l’energia trattenuta nei difficili mesi della dolorosa riabilitazione fisica.
La successiva ‘As You Can See’ è uno dei classici del songwriter, tratta dal suo album di esordio, quel “Micah P. Hinson And The Gospel Of Progress” da cui attingerà a più riprese nel corso della serata.
Micah si conferma come grande intrattenitore, racconta storie della sua vita personale e della grande periferia americana, quella dove il massimo della vita è andarsi a sbronzare al bar o trangugiare un six pack davanti alla tv.
La storia seguente è quella relativa alla vita del nonno, della quale lui sembra sapere dettagli che l’anziano pensava che il nipote non conoscesse.
La storia si intitola “The Life, Living, Death And Dying, Of A Certain And Peculiar L.J. Nichols”, e viene introdotta da un rullante che viaggia come una vecchia locomotiva a vapore che attraversa il pavimento del Monk, per l’occasione diventato pieno di sabbia e polvere come in ogni spaghettti western che si rispetti.
L’arpeggio di ‘Beneath The Rose’ fa strage di cuori soprattutto nel finale che vede l’aggiunta di Andrea Ruggiero al violino, denigrato dal nostro come «fuckin’ violin» per puro divertito e sarcastico spirito di contraddizione.
Quella contraddizione che lo vede sul palco con la maglietta bianca degli Slayer sotto una camicia a scacchi da taglialegna. Dubito che quel ragazzo minuto, con gli occhiali alla Elvis Costello, sia in grado di prendere un’ascia e spaccare un albero mentre aggiunge sigarette in serie al suo bocchino nero senza soluzione di continuità. Ma con la lingua tagliente che si ritrova può fare qualsiasi cosa, come incantare i presenti con la struggente ‘It’s Been So Long‘ o travestirsi da becchino country in ‘Diggin A Grave‘, entrambe tratte dal suo secondo “Micah P. Hinson And The Opera Circuit”.
The One To Save You Now‘ è la solita struggente ballata, mentre la chiusura del set regolare è affidata ad una splendida ‘Don’t You (Part 1 & 2)‘ il cui finale, sebbene prolungato, vorremmo non finisse mai.
Dopo i saluti di rito, Micah torna in solitaria sul palco, la solita postura con la chitarra ben salda sotto l’ascella, sigaretta in bocca, tante storie da raccontare come quella dei mille medici che avevano ritenuto quasi impossibile la gravidanza della moglie, e di come invece le cose siano andate, fortunatamente, in maniera diversa.
La vita infatti gli ha regalato il suo primogenito che, dice, «ha il viso e gli occhi della mamma ma le orecchie e la nuca del padre» suscitando così la risata del Monk, e conclude con un «fuckin’ science» per ribadire la sua fiducia nella scienza medica…
Take Off That Dress For Me‘ e ‘Seven Horses Seen‘ vengono eseguite dal nostro Pioneer Saboteur con grande intensità, mostrando ancora una volta la sua abilità nel saper miscelare perfettamente la tradizione country-folk con il songwriting più contaminato e moderno. La chiusura della serata è affidata alla classica ‘Patience‘ eseguita di nuovo con la band al completo, che ottiene l’ovazione di un Monk non completamente esaurito ma estremamente ricettivo ed emozionale.
Alla prossima Micah.

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