Marillion live a Roma: la capacità del rock di rigenerarsi

Devo dire che raramente mi è capitato, almeno dalle parti romane, di assistere a tanto entusiasmo all’interno della Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica di Renzo Piano.
La sera del 3 ottobre la sala era piena in ogni angolo di persone di ogni età in trepida attesa del concerto dei Marillion, la band inglese che ormai da quarant’anni calca i palcoscenici del rock, senza avere incontrato cadute di stile.
La passione è davvero intergenerazionale: tanti ragazzi o suonatori in erba, ma anche tanti fan della prima ora che non si sono lasciati sfuggire l’occasione di un tuffo negli anni giovanili.
Il concerto è stato una dedica continua del cantante Steve Hogarth al povero Tom Petty, stroncato poche ore prima da un infarto: due universi musicali solo apparentemente lontani, ma che invece dimostrano la capacità della band inglese di Aylesbury di fondere stili e ispirazioni musicali diversi.
Questo ha costantemente rappresentato il marchio di fabbrica della loro poetica: sappiamo che il loro primo decennio è stato caratterizzato da una forte personalità progressive incarnata dal loro primo frontman, Fish; poi l’arrivo di Steve Hogarth alla voce ha spalancato le porte della band verso il rock alternativo e i cambiamenti che la musica stava vivendo sul finire degli anni ottanta.
Così durante il concerto abbiamo assistito ad una summa delle loro capacità: la voce di Hogarth è ancora forte e sicura, capace di scavare nelle profondità oscure del proprio essere, ma anche di picchi sonori profondi ed estesi.
Il tutto sostenuto da una band che ormai suona come un unicum – su tutti, la meravigliosa chitarra di Steve Rothery.
Lo show è stato accompagnato da una prima parte maggiormente improntata all’ultima fatica, “F.E.A.R.”, che sembra recuperare un certo tipo di sonorità progressive, quasi art rock. Poi la seconda parte dello show è tutta una lunga corsa rock con i classici della band, come ‘Easter‘, ‘Man of a thousand faces‘, ‘Go‘, ‘Neverland‘ e ‘Invisible man‘, tutti brani che hanno ancora la forza di suonare moderni, a dispetto di un sound come quello a metà tra gli anni settanta e ottanta che a volte può risultare datato.
In questo caso le capacità istrioniche, quasi teatrali, di Hogarth di tenere il palco aggiungono molto allo show, ben studiato anche a livello scenografico e con un magistrale uso delle luci.
Musica solida che lascia il segno e viene da lontano.

Era molto tempo che i Marillion non si esibivano a Roma e l’attesa ne è valsa la pena.
E in una giornata funesta per il rock con la morte di un gigante come Tom Petty, ma fa bene sapere che ci sono band ancora in grado di suonare un grandissimo rock.
Vederli nella pancia della balena di Renzo Piano ha reso lo show qualcosa di unico e irripetibile.

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