La perfezione del trio: Blonde Redhead live a Padova

Da un gruppo multiforme come i Blonde Redhead non si sa mai bene cosa ci si possa aspettare in un live.
Il concerto potrebbe prendere una direzione sintetica, data da quell’elettronica soffice ma sperimentale che negli ultimi album si è fatta peculiare.
Oppure, potrebbe dare sfoggio del lato noise e aggressivo tipico degli inizi, che fa sempre presa e che si fa apprezzare in modo trascinante.
O ancora, si potrebbe puntare sulla componente più intima e melodica, anch’essa ben delineata nelle fatiche dei Blonde Redhead degli ultimi dieci anni – più avvolgente anche se forse meno coinvolgente.

Si può affermare che sul palco dello Sherwood Festival di Padova lo scorso 11 luglio il gruppo newyorkese abbia optato per la linea morbida.
Morbida come la voce di Kazu Makino, sensibilmente distante come impronta dall’elegante e fredda spigolosità che la caratterizza in studio, ben più calda ed emozionale qui, alla vista come all’udito. Morbida come le percussioni di Amedeo Pace, la cui batteria è spesso mitigata dall’accompagnamento di altri strumenti a percussione più timidi.
A far salire i toni ci pensa Simone Pace, con la chitarra più che con la voce – meno nitida di quanto i dischi ci facciano sentire, più sofferta e imperfetta, più mascolina ma che perde un po’ della sua connotazione principale.
Le diverse anime dei Blonde Redhead, quelle che si sono susseguite negli anni, vengono rappresentate alla perfezione dalla front-woman: se è vero che musicalmente giocano a due punte sull’equilibrio KazuSimone, è altrettanto vero che il lato visivo è dominato dalla componente femminile del gruppo.
Può ancorarsi alle tastiere (e a quel punto la piega è inevitabilmente electro), può mollare tutto e abbandonarsi al microfono buttandosi al centro dello stage prendendo il comando con la sola voce…o ancora, può imbracciare la chitarra elettrica preannunciando il casino imminente.
Interessanti queste ultime dinamiche, quando alla chitarra unisce la voce e si sposta in prima linea, allineata e speculare all’altra chitarra.
Se la voce che si fa sentire è invece quella di Simone Pace, la splendida giapponese si barrica dietro le tastiere, spalle al pubblico, rivolta verso l’amplificatore e resta quasi totalmente immobile.

La scaletta è incentrata sull’ultimo album, i due pezzi di apertura (la title-track ‘Barragán‘ e ‘Lady M‘) sono gli stessi; la zampata sinuosa di ‘No more honey‘ arriva poco dopo, incorniciata da luci fisse color indaco che non verranno più usate in seguito.
Le canzoni rimanenti vengono riproposte quasi tutte, con una versione particolare di ‘Dripping‘, a due chitarre e senza suoni sintetizzati, meno ipnotica e più carica di calore rispetto all’originale.
A caricare e dare energia al pubblico ci pensano soprattutto i brani ripescati da ‘23‘ (2007) tra i quali ‘Dr.Strangeluv‘ (a freddo dopo la doppietta iniziale), ‘Spring by summer and fall‘ (che scuote inesorabile una platea che non si presenta -per forza di cose- troppo vivace) fino alla chiusura dell’encore con il brano che apre e dà il titolo al disco.
Rovistando ancora più indietro nella discografia della band ad un certo punto fa capolino l’apprezzatissima ‘Elephant woman‘, dall’album ‘Misery Is a Butterfly‘ del lontano 2004.

Per ripercorrere i loro vent’anni di carriera e i nove album nel palmares, ai Blonde Redhead servirebbe ben più di un’ora e mezza, ma anche una serata intera sarebbe probabilmente insufficiente.
Vanno operate delle scelte, e il lato che il trio decide di valorizzare è quello più recente, quello che in fondo li ha portati alla ribalta e che porta in dote un suono che li caratterizza maggiormente e li rende esclusivi.
Un concerto omogeneo nel complesso: l’interazione viene lasciata ai fatti più che alle parole, bastano i suoni e i movimenti a creare il contatto con il pubblico, con chi è più ferrato ma anche con chi conosce il gruppo in maniera meno approfondita.
L’equilibrio a tre rasenta la perfezione e riempie un palco che nella sua grandezza non appare mai vuoto, sebbene la scena sia racchiusa in un piccolo fazzoletto di spazio.

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Matteo Ferrari

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Nato nel 1984 nell'allora Regno Lombardo-Veneto. Un onesto intelletto prestato all'industria metalmeccanica, mentre la presunta ispirazione trova sfogo nelle canzonette d'Albione, nelle distorsioni, nei bassi ingombranti e nel running incostante.

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