I Soviet + L’elettricità live a Napoli: se non è rivoluzione questa

Fedeli alla linea, anche quando la linea non c’è…

Non c’era un vento a 30 gradi sotto zero, ma il freddo era tanto per essere un inizio di Novembre napoletano (7 novembre 2017).
Via Toledo non è la Prospettiva Nevski ma per una sera immaginiamo che lo sia, tra l’altro Napoli e Capri sono stati gli unici posti in cui Lenin ha dimorato quando è stato in Italia nel 1908.

La città è congestionata dalla pioggia, “fino al palazzo” pensiamo in auto, ma arrivarci è dura.
Il nostro Palazzo d’inverno, per una sera sarà il Teatro Augusteo, luogo scelto per la prima data del tour de “I Soviet + l’Elettricità”, spettacolo ideato e scritto da Massimo Zamboni, storico membro fondatore dei CCCP.
Insieme a lui un ensemble di altri artisti molto vicini, musicalmente e non solo, a questo progetto.
Sul cartellone leggiamo infatti tra gli altri anche i nomi di Max Collini ed Angela Baraldi, oltre a Fatua alle “performance”.

La data scelta non è casuale, ricorrono infatti i 100 anni dalla presa del Palazzo D’inverno. In tutto il mondo sono state organizzate celebrazioni per ricordare l’inizio della rivoluzione russa e Zamboni e soci si sono fatti trovare pronti con una loro rilettura di quei fatti.

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Al botteghino del Teatro, in attesa di entrare non c’è molta gente.
Una volta dentro la platea comincia a riempirsi. All’apertura del sipario la scenografia appare austera e marziale, quasi impersonale, i musicisti sono schierati in formazione fissa, quasi come fossero impiegati in una catena di montaggio da industria pesante, ed anche i loro costumi richiamano il grigio a metà tra la divisa di un operaio e quella di un soldato.

Lo spettacolo si apre con una citazione della scrittrice russa Nadežda Jakovlevna, moglie dello scrittore  Osip Mandel’štam, e come lui vittima più tardi delle purghe staliniane.
Sul palco a coprire come piccoli muri i musicisti due monitor laterali ed uno molto più alto al centro a creare un’ideale tribuna da cui declamare inni alla rivoluzione e racconti di quel periodo.

La spina dorsale di tutto è la discografia dei CCCP e dei CSI con aggiunte dal repertorio solista di Zamboni ed una piccola incursione nella discografia degli Offlaga Disco Pax.

Il pubblico è di vario tipo, molti i nostalgici dell’epoca d’oro del gruppo di Zamboni e Lindo Ferretti, spunta anche qualche bandiera rossa sventolata nelle canzoni più coinvolgenti, un paio di volte qualcuno tenta di avvicinarsi al palco per ballare sulle note dei cavalli di battaglia dei CCCP pensando, giustamente, che la rivoluzione non è un pranzo di gala ma questo non è un concerto, è uno spettacolo, ed il teatro non è un club, e quindi un po’ di etichetta da rispettare c’è.

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In rapida successione scivolano brani come ‘Roco‘, ‘Spia‘, ‘Breviario Partigiano‘. Poi Max Collini ci racconta il suo ‘Palazzo Masdoni’, da “Gioco di Società”, l’ultimo album degli ODP.

Ai brani si alternano brevi passi che ci riportano al freddo dell’inverno del 1917, tra le strade di Pietroburgo, i monitor accompagnano con filmati e fotografie ogni fase della narrazione. L’atmosfera è grave, cupa  come le cupe vampe cantate più tardi, si respira quell’atmosfera pesante che creò i presupposti per la storia di cui ancora oggi a cento anni di distanza ancora si parla.

Il ritmo e la tensione cresce gradualmente fino a esplodere su brani come ‘CCCP‘, ‘Huligani dangereux‘, ‘Spara Jurij‘, vere e proprie cime emozionali della serata. Angela Baraldi emoziona ogni volta che mette la sua voce sui brani in scaletta, le sue interpretazioni danno una vita nuova a brani che si conoscevano sotto altre vesti, gli arrangiamenti sono tutti ben architettati. La band non perde un colpo e accompagna come un sol uomo gli interpreti. Fino al palazzo!

La musica occupa la quasi totalità del tempo, essendo un “comizio musicale” presentato nei teatri mi sarei aspettato qualche intermezzo parlato in più, qualche altro passo recitato per dare contorni più precisi e dettagliati del contesto storico che si portava in scena, lo ha detto anche Massimo Zamboni che avrebbe avuto bisogno di un anno in più per scrivere come aveva in mente lui questo spettacolo, ma la rivoluzione non aspetta nessuno figuriamoci un debutto teatrale.
Nonostante ciò il repertorio in cui è andato a pescare è talmente vasto da non lasciare spazio a recriminazioni, l’unica forse era quella di volerne ascoltare ancora, fino al palazzo, fino a tardi, ancora.

Quando, dopo quasi due ore, il sipario si chiude il pubblico è carico, chiede a gran voce un bis per quasi un quarto d’ora. Ma questo non è un concerto, il Teatro non è il palazzo d’inverno e quindi il bis non c’è.
Va bene anche così.

Cosa lascia questo Comizio musicale?

Credo che la definizione migliore l’abbia data proprio Zamboni: questo spettacolo lascia la voglia di non scherzare.
Ciò non significa far musica seria, ma credere che (anche) con la musica si possano cambiare le cose, capendo che non è solo commercio, ma per fortuna anche qualcosa di più.
Se non è rivoluzione questa…

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