I-Days Festival 2018 Day 4: le botte domenicali

Cala il sipario il 24 giugno sull’edizione 2018 di I-Days Festival, che in quattro giorni ha portato nell’area di Experience Milano nomi storici e seguitissimi della scena rock più tradizionale. La domenica ci riserva le sonorità più spinte e ruvide dell’intero cartellone, facendo ritorno all’Open Air Theatre con la sua conformazione davvero interessante. La giornata viene aperta da CRX e Wolf Alice, un riscaldamento in attesa che arrivi la vecchia guardia.

Primi veri protagonisti del Day 4 di I-Days Festival sono The Offspring. Il punk rock della band californiana è da subito tirato, riff facili come da copione, la voce di Dexter Holland non ha lo smalto degli anni migliori ma il contesto lo permette. I pezzi più veloci hanno il tempo in rincorsa, con batteria e chitarra ad inseguirsi, le loro hit più celebri come ‘Come out and play‘ si fanno naturalmente più piacione e ondeggianti.

C’è spazio per un brano nuovo di The Offspring, ‘It won’t get better‘, pienamente in linea con lo stile del gruppo. Si spazia dalle influenze pop punk di ‘Original prankster‘ un po’ urlata, alla batteria a doppia velocità dell’acceleratissima ‘Have you ever‘, a ‘Staring at the sun‘ dall’esecuzione statica, tutti con lo sguardo dritto e intenti a menare le mani. Un paio di pezzi in vecchio stile permettono al pubblico di I-Days Festival di pogare, e dopo un intermezzo al piano ci si avvia verso la chiusura del set.

Why don’t you get a job?‘ è scanzonata ma affaticata, ‘Pretty fly (for a white guy)‘ è il brano di ordinanza per The Offspring, mentre ‘The kids aren’t alright‘ è alta, tiratissima e brusca. C’è un encore con un paio di pezzi ancora da giocarsi, prima di lasciare spazio alla prosecuzione di I-Days Festival: ‘You’re gonna go far, kid‘ e soprattutto la storica ‘Self esteem‘, ruggente e portentosa.

C’è qualche decina di minuti per rifiatare, scongiurando il maltempo e allontanando le nuvole che si riveleranno alfine innocue per l’I-Days Festival, prima che le casse tornino a menare fendenti, sotto la spinta dei Queens of the Stone Age. L’attacco è frontale, ‘Go with the flow‘ parte subito a botto e ‘Sick, sick, sick‘ è ancora più violente. Le chitarre picchiano in una scena dominata da luci pulsanti, e quando il passo rallenta è l’intensità dei colpi ad aumentare. La presenza di Josh Homme è accattivante al punto giusto, ricoprendo bene il ruolo di frontman in un gruppo che non bada molto ai fronzoli.

Lo stoner rock dei Queens of the Stone Age e il suo effetto stordente viene fuori bene quando il basso vibra maggiormente, le chitarre sono più secche, pulite e frastornanti. Continua l’alternanza tra tempi più veloci, come in ‘The evil has landed‘, scandita dal suono appunto delle chitarre, a pezzi dal ritmo più lento come ‘Burn the witch‘, sostenuti dal basso. Le linee dei diversi strumenti vengono tenute distinte, senza che ci si faccia prendere la mano, la batteria è nervosa e nerboruta e guadagna spazio su ‘You think I ain’t worth a dollar, but I feel like a millionaire‘.

L’intensità mostrata dai Queens of the Stone Age è a livelli davvero elevati, ‘No one knows‘ è portentosa ed impeccabile, lo stacco tra i vari pezzi è minimo. Occasione di prendere respiro, con qualche virtuosismo e qualche chiacchiera di presentazione, ce la si prende su ‘Make it wit chu‘, e dieci secondi di silenzio chiamati da Josh Homme lanciano la chiusura di concerto e di I-Days Festival 2018: ‘Little sister‘ suonata a pieni giri, e ‘A song for the dead‘ drammaticamente brutale. I ragazzi di Palm Desert si confermano all’altezza delle aspettative, con una scaletta perfetta per il contesto e con una resa degna del nome che portano.

C’è spazio per qualche riflessione anche sull’intera rassegna: la nuova cornice di I-Days Festival si mostra più che apprezzabile, dal punto di vista dell’organizzazione musicale e per tutti gli aspetti logistici, di posizione e accessibilità. Gli spazi sono ampi e potrebbero permettere di osare qualcosa di più, i disagi che in altre edizioni avevano creato un po’ di perplessità sono davvero ridotti. Le diverse giornate sono state organizzate con una suddivisione piuttosto omogenea delle line-up, senza cadere in quello che è da sempre un vizio dei festival italiani. Possiamo sperare in qualcosa di più per il prossimo anno? Un suggerimento, come se fossimo alla fine di un questionario di gradimento e dovessimo compilare la casella “altre osservazioni”: vorremmo più palchi.

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Matteo Ferrari

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Nato nel 1984 nell'allora Regno Lombardo-Veneto. Un onesto intelletto prestato all'industria metalmeccanica, mentre la presunta ispirazione trova sfogo nelle canzonette d'Albione, nelle distorsioni, nei bassi ingombranti e nel running incostante.

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